giovedì 27 marzo 2014

Documenti dal Grand Tour








   



    DOCUMENTI  DAL GRAND TOUR

   I TACCUINI DEL FONDO CONSONI
   
     della
   
FONDAZIONE MARCO BESSO
 
      di

          Isabella Boari

























    INDICE




 PREMESSA……………………………………………………………………..pag.


 IL CONTESTO STORICO : LA CITTA’ DEGLI STRANIERI……………………….pag.


IPOTESI DI ATTRIBUZIONE………………………………………………..…pag.


TACCUINO A……………………………………………………………….…...pag.


TACCUINO B…………………………………………………………………....pag.


APPENDICE DOCUMENTARIA………………………………………………..pag.


BIBLIOGRAFIA………………………………………………………………….pag.


INDICE DEI NOMI ………………………………………………………………pag.

























Ringraziamenti


Mario Bevilacqua
Ferdinando Bilancia
Giovanna Capitelli
Stefania Glori
Mario Gori Sassoli
Silvana Leone
Simonetta Prosperi Valenti Rodinò
Patrizia Rosazza
Paolo Emilio Trastulli


Ringrazio in particolare Antonio Martini per avermi dato la possibilità di condurre gli studi che hanno portato alla realizzazione di questa pubblicazione.



                   
 G.B. Piranesi – Antichtà romane – 1835 – Fondazione Marco Besso



































Premessa


L’archivio donato da Francesco Consoni alla Fondazione Marco Besso nel 1926 è uno dei più interessanti e vari fra le donazioni alla biblioteca. Il fondo è costituito da ritagli, fotografie, stampe originali e disegni che  nel loro insieme formano una risorsa iconografica di grande valore documentario. Il materiale una volta acquisito è stato diviso in unità costituite dai monumenti, dai palazzi e dalle piazze di Roma e divisi a loro volta in rioni. Durante un riordino di tale archivio intrapreso nel 2007, sono stati identificati alcuni disegni raffiguranti vedute di Roma e della Campagna Romana. I disegni, unici come genere all’interno di questo fondo, erano stati smembrati fra loro per favorire sia la consultazione  topografica che iconografica della raccolta. Il riordino ha reso possibile la loro estrapolazione per motivi di conservazione e l’identificazione di tale unità, in base alla datazione apposta su ogni foglio; questa operazione ha dato la consapevolezza di avere di fronte un taccuino recante un itinerario di viaggio ben preciso. Ad una attenta analisi i disegni presentano delle note manoscritte in lingua tedesca e sono datati fra il 1829 ed il 1831, anni nei quali i pittori d’oltralpe  rappresentavano una cospicua  presenza  a Roma. Questo itinerario ha reso inoltre necessaria la divisione dei disegni in due gruppi, già diversificati sia nel formato che nel tipo di  carta. Il percorso comprende vedute di Roma, della via Appia, della Caffarella con  resti di epoca repubblicana, ed il territorio intorno alla via Nomentana comprensive dei resti di S. Costanza e delle zone limitrofe di Roma allora considerate Campagna Romana. In questo itinerario vengono incluse località che rappresentano un classico percorso seguito dal Grand Tour in  centro Italia, come Terracina, il golfo di Napoli, e a nord di Roma, Santa Marinella, Civitavecchia e Tarquinia in un territorio che fece parte della “Comarca di Roma”, istituita nel 1816 da papa Pio VII, e più in generale  del territorio del “Patrimonio di S. Pietro”. Si è ritenuto necessario, in mancanza di una firma certa e distinguibile nei manoscritti apposti sui fogli, operare alcuni confronti con le opere di alcuni pittori presenti a Roma in quegli anni per arrivare ad una possibile ipotesi attributiva. Questa tipologia produce soprattutto disegni caratterizzati da un elemento atmosferico forte, determinato dal movimento a vortice degli alberi e dalla definizione del movimento

        Comarca di Roma con le delegazioni limitrofe


    Bernardino Olivieri – Carta del Patrimonio di S. Pietro – 1802 (Fondazione Marco Besso)

delle nuvole. La linea netta del contorno dei monumenti principali denota sia la consuetudine allo schizzo veloce che veniva poi sistematicamente ridefinito in altra sede, che la possibilità che questi disegni fossero ricalcati per fornirne altre copie. I disegni di paesaggio erano fondamentali per la realizzazione delle grandi opere dipinte sia come studio per la distribuzione degli elementi nel quadro, sia  perché tali paesaggi determinavano il contorno emozionale della scena. Sono presenti tutti i “topoi” del Grand Tour quali le locande, le stazioni di posta e le osterie; le vedute sono quelle riproposte altre volte da molti artisti stranieri che venivano in contatto con i suggestivi reperti archeologici  della campagna intorno a Roma. In questa pubblicazione si tenta una prima analisi dello stile dell’ignoto artista nonché una ricostruzione dei suoi rapporti con l’ambiente culturale dei tedeschi a Roma sul finire del primo quarantennio del XIX secolo, collocando i disegni in un contesto culturale preciso con lo scopo di  definire l’itinerario seguito dal pittore.
 
       
     IL CONTESTO STORICO : LA CITTA’ DEGLI STRANIERI


Gli anni che vanno dal 1820 al 1840 sono particolarmente interessanti per Roma. Dopo l’occupazione francese, che vide un cambiamento radicale dell’ organizzazione amministrativa e urbanistica della città, si contano numerosi circoli culturali fondati da comunità straniere i cui rappresentanti erano già presenti in gran numero dal XVII secolo a Roma; oltre ad essere assidui nel ritrarre il volto più interessante della città,  erano  interessati  alla discussione culturale e politica che in quegli anni si svolgeva sia nei circoli ecclesiastici che laici. Nel 1815 Roma era ancora sotto la dominazione francese a causa dell’occupazione delle truppe napoleoniche avvenuta nel 1809 quando Pio VII (1800-1823), portato fuori dal Quirinale venne preso in ostaggio. Il significato ricoperto dalla conquista di Roma era fondamentale per l’ideale imperiale di Napoleone. Roma come simbolo del potere imperiale costituiva la molla che avrebbe rafforzato il consenso politico generale nell’Impero. In questo contesto l’interessamento dell’imperatore francese alla città si espresse nella creazione di un organo responsabile della gestione dei grandi progetti infrastrutturali e di riqualificazione urbanistica. Il proposito era quello di trasformare la capitale in una seconda città imperiale, considerando il Quirinale la sede napoleonica per eccellenza con il trasferimento di gran parte della simbologia imperiale neoclassica nella preesistente struttura, vede la  catalizzazione di gran parte delle energie progettuali e finanziarie nelle decorazioni e nelle imprese di carattere celebrativo. I servizi e le infrastrutture erano il fulcro di questo mutamento che apportò all’assetto urbanistico della città notevoli cambiamenti.
In quel momento oltre ai francesi numerosa era la popolazione  nella città degli inglesi e dei tedeschi, accomunati dall’interesse per le usanze locali italiane e per la storia di Roma. La città era polo di attrazione per artisti e scrittori da tutta Europa suscitando in loro, come di consueto nella sua  storia, una profonda suggestione. Rappresentanze come quella danese e quella russa furono anch’esse particolarmente attive nei circoli culturali della città ma essa era satura di cultori provenienti da tutte le nazioni d’Europa. Personaggi all’epoca giovani promesse come fecero infatti la loro esperienza culturale della classicità proprio a Roma, seguendo le tracce dell’antichità ed usufruendo della condizione di borsisti3. Ovviamente Goethe fu l’artefice di un grande interesse in patria per Roma e per i suoi itinerari nascosti e il suo Reise nach Italien  rappresenta una pietra miliare per la letteratura di viaggio4.
Il ritorno del pontefice Pio VII nel 1815  riportò il controllo del papato nella Città Eterna gran parte della restaurazione che seguì al suo ritorno fu opera del cardinale Ercole Consalvi5 che si premurò soprattutto di operare la cancellazione di ogni traccia lasciata dal governo francese conservando tuttavia con un certo interesse il lavoro da loro svolto sull’urbanistica, sui piani igienico-sanitari e sulla riforma amministrativa: un moderato decentramento delle funzioni, forse su pressione degli altri governi stranieri con i quali il papato aveva conservato buoni rapporti6. Tuttavia nel 1821 si  svolsero le solenni condanne dei carbonari che si erano schierati contro il governo papalino ed al ripristino della Compagnia di Gesù che era stata soppressa nel 1773. Vengono comunque reintrodotti all’interno dell’amministrazione curiale alcuni personaggi dell’aristocrazia romana, precedentemente esclusi dall’amministrazione francese dalla guida della città, soprattutto allo scopo di evitare che giovani rampolli della nobiltà venissero affacinati dai venti di rivolta suscitati dai francesi. Alcune opere del programma pontificio furono realizzate solo con Gregorio XVI (1831-1846), mentre già sotto Leone XII (1823-1829) venne realizzato il Porto Leonino situato sull’ansa del Tevere corrispondente a S. Giovanni dei Fiorentini, il Mattatoio e lo scavo del Foro Romano, opera del Canina, ma già iniziato dai francesi, prima che Pio VII varcasse nuovamente il soglio pontificio. Nel 1804 l’Accademia di Francia venne trasferita a villa Medici lasciando la sua precedente sede di Palazzo Mancini, e da quel momento diede ospitalità anche ad artisti di nazionalità tedesca rappresentando, per gli anni di inizio Ottocento, un importante punto di incontro fra le varie culture europee7. La presenza dei viaggiatori tedeschi a Roma fu preceduta da una serie di approfondimenti sulla storia locale e generale dell’Italia che rivelano un particolare interesse degli intellettuali d’oltralpe verso la cultura della penisola. Nel periodo 1827–1832 lo storico K.F. von Rumohr (1785 -1843), legato da intensi rapporti culturali con Goethe, diede alle stampe un’opera dal titolo Italienische Forschungen ponendo una serie di fondamentali interrogativi sulla storia dell’arte italiana dall’Alto Medioevo al Rinascimento ed in Germania videro la luce molte altre pubblicazioni che si occupavano della storia italiana8.
Fra queste è da segnalare un’opera uscita tra il 1829 ed il 1842 dal titolo Beschreibung der Stadt Rom di un gruppo di studiosi appassionati germanici9.La storia ed il folklore italiano erano argomenti di grande interesse per coloro che avevano consacrato il viaggio in Italia come il coronamento di una adeguata preparazione classico-umanistica dei giovani artisti e degli intellettuali. Questi erano soprattutto supportati dai lauti finanziamenti che le accademie dedicavano a questa parte della didattica, al viaggio ed all’esperienza sul campo, una tradizione precedente rivolta dagli artisti specialmente alla conoscenza dell’antico, ma seguita dagli anglosassoni negli anni di cui parliamo e che fece i suoi proseliti anche in Germania, dove questo viaggio assumeva il significato di un’esperienza diretta delle origini della cultura europea10. Fu Johann Joachim Winckelmann (1717 - 1768) ad inaugurare la tradizione del viaggio artistico, già anticipata dai Kavalierstour del Settecento (connotazione del viaggio come usanza di casta). A Roma già dal 1755, dopo essersi convertito al cattolicesimo Winckelmann nel 1763 venne nominato direttore generale delle antichità romane; la sua ricerca purista mutò il tradizionale pellegrinaggio religioso a Roma in un viaggio culturale volto allo studio della storia dell’arte italiana. Numerosi artisti approdarono a Roma trovando ricovero presso la Villa Malta abitata in quel periodo dall’ambasciatore prussiano Wilhelm Von Humboldt (1767-1835) e centro di raccolta della popolazione degli artisti tedeschi nella città. La villa si trovava sulle pendici del Pincio verso via Capo le Case e sorgeva sul luogo dove erano segnalate la distrutta chiesa di S. Felice in Pincis ed un palazzo degli Orsini prima del 151711. Quando la villa fu nel 1816 affittato a vita al Cavalier Giuseppe Celani pur rimanendo di proprietà dell’allora governo francese, egli subaffittò i locali come studi per gli artisti tedeschi a Roma. Alcuni artisti  intrapresero in quegli anni lo studio delle tecniche artistiche affrontando la pratica dell'affresco rinascimentale sulla base delle ricerche  storiche di Winckelmann 12.
Tra questi  i due accademici di Vienna, Friedrich Overbeck (1789 – 1869) e Franz Pforr (1788-1812) giunsero a Roma nel 1810 tramite l’Accademia di Francia e, con altri artisti quali Ludwig Vogel (1810-1870), Konrad Hottinger (1788-1828), Josef Wintergerst (1783-1867) fondarono un gruppo detto della “Confraternita di S. Luca” (Lukasbund), che trovò adeguata sede nel convento di S. Isidoro13. Qui condussero una vita totalmente dedita al lavoro artistico, spesso posando gli uni per gli altri  e trattando quasi sempre temi dall’Antico,  dal Nuovo Testamento e dalle Vite dei Santi14. Lasciarono il segno del loro soggiorno negli affreschi del Palazzo Zuccari,  la Storia di Giuseppe e  quelli del Casino Massimo con scene epiche tratte dalle opere degli autori fondamentali della letteratura italiana quali Dante, Ariosto, Tasso e Petrarca.
Tra gli artisti che fecero parte del gruppo, Peter Cornelius (1783-1867), fu tra i più creativi; arrivò a Roma nel 1811 e si dedicò agli affreschi del Casino Massimo occupato in quel momento dal console Jacob Salomon Bartholdy15 mantenendo tuttavia una posizione molto indipendente dal gruppo. Nel 1819 fece ritorno in patria, chiamato a Monaco da Luigi di Baviera e dopo una carriera  durante la quale  produsse anche opere di illustrazione come quelle per il Faust di Goethe, mantenne saldi i propri interessi per la pittura epica. Il gruppo di artisti ebbe una grande attrazione per il cattolicesimo, e quasi tutti si convertirono alla chiesa di Roma; il loro modo di dedicarsi esclusivamente alla pittura e le loro sembianze austere, gli valsero la denominazione di “Nazareni” da parte di J.A. Koch16. Anche altri artisti, non attratti in modo specifico dall’aspetto religioso dell’arte, vennero rapiti emotivamente dal fascino suscitato dalle vestigia di Roma. Abbiamo le opere poetiche di Goethe e quelle dei paesaggisti maggiori come Hackert e successivamente Koch che ce lo testimoniano. Questa esperienza provocò in molti di essi una sorta di catarsi e di identificazione che li portò a trasferirsi in modo stabile nei luoghi da loro amati. Un esempio dell'effetto travolgente che suscitava il paesaggio della campagna intorno a  Roma è rappresentato dal caso di Olevano Romano, dove molti artisti decisero di stabilirsi e di legarsi agli autoctoni.
In altra forma questo avvenne con la gestione di eventi particolari, ad esempio delle feste nelle grotte della zona di Tor Cervara (dette “del Cervaro”), vicino Roma, che hanno avuto origine in modo molto singolare. Queste venivano organizzate da un gruppo di artisti dalle consuetudini goliardiche riunitisi dapprima casualmente presso un'osteria alle porte di Roma vicino Ponte Milvio.
L’assiduo riunirsi diede luogo alla nascita del gruppo denominato la Compagnia di Ponte Molle (Die Ponte Molle Gesellschaft), interessato soprattutto al paesaggio, e ispirato dal colpo d'occhio che allora offriva Roma da Ponte Milvio e che comprendeva, la cupola di S. Pietro, parte del Tevere e dei tetti della città. La “Compagnia” si trasformò nel 1845 nella “Deutscher Kuenstlerverein” che ebbe una sede stabile in palazzo Simonetti a via del Corso17. “ E’ fuor di dubbio che ove molti individui che danno opera alle medesime discipline trovinsi riuniti, emerga alle discipline stesse giovamento di non piccola conseguenza” , così si esprimeva nella sua descrizione dei convivi degli artisti il Boschi nel 1845 : “Già sono scorsi molti anni dacchè gli artisti tedeschi che trovavansi in Roma avevano in costume d’adunarsi in brigata e di formare una società a cui avevano dato il nome di Ponte molle perché da tal ponte è necessario passare a chi dal nord viene ad ispirarsi ….. non sol di tedeschi , ma d’italiani, Spagnuoli, Francesi, Inglesi, Russi, Polacchi …“18. La vivace presenza di questi artisti fu di stimolo anche per gli intellettuali locali, che diedero testimonianze della loro presenza nelle taverne e osterie romane ed in locali dove  potevano conoscere letterati ed artisti italiani come il Caffè Greco in via dei Condotti, famoso punto di incontro delle varie culture gravitanti sulla città. Una certa diffidenza era insita nella classe dotta dei romani, i quali avevano accolto in modo ostile alcune problematiche filologiche e critiche avanzate da Humboldt e più tardi anche da Mommsen vedendoci un tentativo di distruzione delle consolidate certezze della ricerca archeologica e della critica d’arte tradizionale locale: la critica e le nuove interpretazioni nella ricerca archeologica ed artistica del Romanticismo per alcuni era sinonimo di negazione del riconoscimento dello spirito di Roma19. Per avere un quadro ampio della situazione culturale romana di quell’epoca non bisogna dimenticare sia l’opera di Giuseppe Antonio Guattani (1748 – 1830), che  propose la libera circolazione delle opere d’arte moderna  e l’effetto che avevano le notizie delle ricche commissioni papali sul pubblico internazionale, attirando molteplici personaggi della cultura straniera a Roma. La passione per il paesaggio è una caratteristica del Romanticismo che come termine specifico determinante il movimento culturale,  nasce in Germania per opera di Friedrich von Schlegel (1772 – 1829) e si sviluppa  a cavallo fra Settecento e Ottocento come reazione all’Illuminismo razionale ed al culto dell’antico e della bellezza ideale  neoclassica. Si contrappongono a questi valori il gusto per il particolare inteso come singolare, dell’individualità e dei tratti naturali, in un contesto che vedeva la fine della rigida scuola accademica appartenente al Neoclassicismo e l’avventura di una nuova percezione della realtà20.      
Il culto del paesaggio fa parte della rivalutazione del dato casuale, dell’arte come fatto spontaneo e naturale, elemento che il Neoclassicismo accademico aveva escluso dai propri parametri. Caratteristica del Romanticismo è anche l’amore per l’ esotico che corrisponde in quel periodo, soprattutto per gli artisti tedeschi, alla curiosità e passione per le usanze folkloristiche dell’Italia , per i paesaggi e per la luce, così diversi da quelli del nord Europa. Per il romantico tedesco l’uomo è un viandante che cerca la propria realizzazione spirituale nel mondo, come nel dipinto di Caspar David Friedrich intitolato “Der Wandere ueber der Nebelmeer” (Il viandante sul mare di nebbia) del 1818, ora alla Kunsthalle di Amburgo, dove l’uomo è immerso nel sublime contesto del paesaggio montano cercando se stesso e la propria appartenenza. Lo stesso Pforr lasciò una testimonianza determinante di questa nuova direzione intrapresa. Scrive nel 1810 : “Ognuno di noi andava per la sua strada senza imitare gli altri …. E così scoprimmo che progredire significava in fondo allontanarsi sempre più dai principi dell’Accademia e al tempo stesso avvicinarsi sempre di più alla maniera dei maestri antichi”21.
E’ da questo contesto che nascono alcune prime forme di culto dei dialetti, delle tradizioni locali e del successivo “culto della nazione”, come un fenomeno di rivalutazione delle tradizioni locali ma che poi degenerò presto come sappiamo in odiosi estremismi. Dunque vediamo che la riscoperta del paesaggio coincide con il mutamento culturale che in arte oppone la figura umana alla percezione di una natura comunque incombente e soprattutto alla veduta dei reperti storico-archeologici Romani, come espressione della tendenza del pittore romantico ad esprimere l’emozione del tempo che passa attraverso le rovine. Dunque in questa fase abbiamo un tipo di pittura che anche nei disegni preparatori, esprime una passione per la ricerca del dato storico-enciclopedico (minuziosa descrizione del monumento) unita al sentimento del sublime nel rendimento del rapporto fra l’uomo e la natura stessa. Si coniuga perciò il passaggio tra l’uomo, il monumento storico e la natura che lo soverchia come ineluttabile elemento che va oltre la sua storia e la traduce in poesia (ut pictura poesis). Il gusto dell’antico diventa un elemento non solo di ricerca ma anche di riflessione sulla propria condizione esistenziale, secondo la tradizione della letteratura romantica19. Il Grand Tour, nato con intenti  didattici, diviene un’esperienza emotiva per l’approccio creativo dell’artista che l’affronta : i libri con descrizioni di viaggio di questo periodo sono infatti costellati da interpretazioni poetiche e suggestive tanto da venire spesso pubblicati per le suggestioni che suscitano, attirando molti lettori inaugurando un filone specifico della letteratura legata al viaggio in Italia nonchè una serie di pubblicazioni di guide di Roma moderna in lingua.      
Dopo questa breve introduzione al periodo storico passerei ad una più attenta analisi del materiale. I due taccuini sono stati disegnati in  momenti diversi : negli anni 1829,1830 e 1831 con un intervallo a volte di qualche mese l’uno dall’altro. E’ possibile che i disegni appartengano a due mani diverse ma certamente ad uno stesso ambito culturale.  La carta si differenzia nelle due unità : nel taccuino A abbiamo una fabbricazione inglese del 1794 che riporta in filigrana il nome di “J. Whatman”, mentre nel taccuino B la carta appare piu preziosa, vergellata, risalente al 1783  e secondo la marca della filigrana, presente a Palermo20. Le ipotesi sulla paternità dei taccuini possono essere varie: in quegli anni compresi fra il 1829 ed il 1831 a Roma gravitavano personaggi come F. Preller il Vecchio, Ernst Fries, Ferdinand Hopfgarten, Friedrich Nerly e Joseph Anton Koch personaggio di riferimento per la comunità degli artisti tedeschi a Roma21. Purtroppo i 62 disegni che compongono i taccuini sono privi apparentemente di firma. Le frasi manoscritte in basso corredate dalla data terminano con un “mit …” e poi verosimilmente con un nome, come se il disegnatore volesse indicare in compagnia di chi aveva eseguito quel percorso. Inoltre parte delle scritte riguardano la descrizione dei colori delle piante, degli alberi, dettagli del paesaggio, probabilmente riguardanti strumenti di lavoro per il trasferimento su tela.
Sul retro del disegno 12/3918 (fig.27) compare una palma esistente a Terracina e presente in una veduta d'insieme della cittadina, accanto alla quale sembrano essere descritti i colori e le caratteristiche “Wo die Aeste runtherhaengen sind sie nackt und also …. Stellen. Der Stamm hat eine dunkelgraue Farbe. ...“( Dove i rami pendono è spoglio e così [le foglie]... sono appese. L’albero è di un colore grigio scuro) La maggior parte dei disegni sono su una buona carta vergellata, mentre gli altri sono stati fatti, come già accennato, su carta industriale di fattura inglese.  La fase più alta della qualità grafica si riscontra nei disegni raffiguranti la via Appia Antica e la Caffarella dovuto all’interesse minuzioso che mostra l’autore per la descrizione dei particolari delle foglie, degli alberi. Il disegnatore inoltre si sofferma spesso sulla linea d’orizzonte delimitata dalla zona di S. Giovanni, del mausoleo di Cecilia Metella, preziosa testimonianze del panorama della città che si mostrava al viaggiatore in quegli anni. Il tratto è sottile e preciso, caratteristico dei disegnatori tedeschi e la descrizione dei particolari è minuta, un senso atmosferico pervade anche i disegni e la mano, particolarmente capace del disegnatore, si rivela soprattutto sul retro di uno dei paesaggi dove compare il ritratto di un gentiluomo e su quello dove appare il ritratto di una donna in costume folkloristico22. La tradizione del ritratto era diffusa nelle accademie dove troviamo spesso raccolte di ritratti di borsisti.
Questa consuetudine coincide con la autodeterminazione degli artisti quali professionisti indipendenti, che si esprime in parte in alcui eventi che vengono attuati per la prima volta in quel periodo come le aperture d egli atelier dove si mostravano per la prima volta quadri terminati senza committenza23. In altri casi si inauguravano mostre in Campidoglio durante la dominazione francese alcune delle quali, svoltesi fra il 1809 ed il 1811, si mostravano in grande sintonia con le intenzioni delle “Memorie enciclopediche romane” del Guattani uscite nel 1806.  La consuetudine al disegno di figura e di paesaggio era una tradizione dell’Accademia; lo schizzo dal vero costituisce il tessuto sul quale il pittore costruisce la propria opera. Una miniera di forme, argomenti, paesaggi e suggestioni che sono alla base delle opere pittoriche di questo periodo. I taccuini di viaggio rappresentano, per il loro valore documentario, una fonte inesauribile di ispirazione, in un’ epoca nella quale stava per affacciarsi la fotografia che avrebbe mutato definitivamente il rapporto dell’uomo con le immagini24. Seguiremo dunque in ordine cronologico il percorso seguito dal nostro artista tramite la datazione che costantemente vi è stata apposta e la topografia specifica dei luoghi  riprodotti sui disegni, corrispondente a quel percorso tipicamente didascalico che intraprendeva il novello giovane artista all’arrivo nella Città Eterna.


   IPOTESI DI ATTRIBUZIONE

I disegni mostrano una dedica manoscritta intuibile dal “mit… “ che notiamo in alcune pagine del manoscritto B. E’ verosimile che i due  viandanti in cerca di nuove ispirazioni per le loro opere d’arte, si alternassero nell’esecuzione dei disegni nei taccuini e che ad alcuni disegni avessero  lavorato a due mani. Come si è evidenziato precedentemente, l’ambito stilistico in cui possiamo collocare i disegni è quello del pittore Joseph Anton Koch (Obergiblen 1768 – Roma 1839) soprattutto per l’interesse a carattere pastorale dei suoi quadri e per alcune caratteristiche peculiari del disegno. A questo proposito possiamo passare al confronto tra alcuni quadri di Koch ed i disegni a nostra disposizione. In generale possiamo osservare la cura del segno sapiente in alcuni , che denotano una certa esperienza dovuta alla lunga pratica del disegno. Koch aveva circa sessant’anni e la sua esperienza come artista e come disegnatore era  consolidata. Nonostante ciò la sua vita fu costellata di periodi di povertà che lo costrinsero a decisioni sofferte per lui e per la sua famiglia. Era tornato a Roma, dopo esser stato costretto a rifugiarsi a Vienna durante l’occupazione francese della città, nel 1815 e nella sua patria di elezione aveva cercato sempre alleanze prestigiose e buone commissioni25. E’ per questo che fu spesso punto di riferimento degli stranieri di lingua tedesca che venivano da lui accompagnati per la prima volta nelle zone tradizionalmente percorse dagli artisti. Questi  erano spesso borsisti sovvenzionati in patria dalle istituzioni accademiche o dalla nobiltà tedesca e non è escluso che alcuni di essi pagassero le loro guide per essere condotti nei luoghi che volevano visitare. Il carattere del materiale che abbiamo esaminato potrebbe avere questa origine. Koch nel 1822 rimase colpito da una grave forma di malaria  e sicuramente la sua inattività lo costrinse in seguito a procurare sostentamento per la moglie Cassandra Ranaldi conosciuta ad Olevano Romano e per la figlia Elena. E’ interessante notare che la cognata Costanza Ranaldi, avendo sposato lo scultore di corte Leopold Kissling, fece da tramite per la conoscenza di collezionisti da parte di Koch che se ne avvalse per ottenere nuove commissioni26. Nel 1828 arriva a Roma Johann Michael Wittmer (Murnau 1802 – 1880 Monaco di Baviera) esponente di una  famiglia di pittori Bavaresi; stipendiato del re Ludwig I di Baviera, formatosi all’Accademia di belle arti di Monaco, fu allievo di Peter v. Langer e, dal 1825, di Peter Cornelius27.
Per due anni rimarrà a Roma e visiterà la circostante campagna soggiornando in uno degli studi per artisti di Villa Malta, frequentando
 la cerchia dei Nazareni fra i quali gravita in quegli anni anche Koch e  Johann Martin von Wagner (1777 – 1858) scultore e disegnatore28. E’ in questo modo che  entra  in contatto con lui e trascorre col già sessantacinquenne artista, buona parte del suo soggiorno a Roma. Nel 1833 Wittmer si trova in tale confidenza con Koch che ne  sposa la figlia Elena e successivamente, apprezzato dal successore al trono di Baviera Massimiliano II che allora era ambasciatore, viene chiamato come disegnatore per un viaggio che lo porta in Sicilia, Grecia e Turchia.. Molto vicino al re di Baviera lo accompagna nelle frequenti escursioni tra le antichità romane facendogli conoscere ed apprezzare i paesaggi della Campagna Romana. Con Koch e la sua famiglia Wittmer risiede per un periodo ad Olevano Romano , e del suo passaggio nella Sabina lascia alcuni disegni ora conservati a Vienna29. E’ nel 1847 che si verifica un’ occasione unica per Wittmer : quella di poter sostituire il pittore di corte Johann Christian Reinhart (Hof/Franconia 1761- Roma 1847) deceduto in quell’anno30. Massimiliano II nel 1848 viene dichiarato re di Baviera grazie all’adbicazione del padre Ludwig I e Wittmer nominato al posto di Reinhardt dal nuovo re, riesce in ad ottenere una pensione annuale. L’anziano re Ludwig dopo aver abdicato, risiede a Roma in varie occasioni nelle quali Wittmer è spesso invitato. A questo punto siamo oltre il 1840 mentre il periodo in cui la nostra attenzione si focalizza è quello della venuta a Roma di Wittmer (1828) e del suo matrimonio con Elena Koch (1833).Fra questi due momenti si posizionano i nostri disegni datati fra il 1829 ed il 1831 che sono la testimonianza di quei primi giorni passati dall'artista nella città eterna, dove  inizia la conoscenza delle usanze locali. Dopo tale premessa veniamo all’analisi dei fogli : la lettura delle scritte apposte sui disegni non ha rilevato una firma vera e propria. Ma dalle date apposte sui fogli e dalla documentazione sugli artisti presenti a Roma in quegli anni, si può formulare una interessante ipotesi.
Il giovane Wittmer al momento del suo arrivo a Roma aveva appena concluso i suoi studi accademici, con risultati forse non brillanti e aveva intrecciato importanti rapporti con alcuni artisti molto influenti a Roma. Il ritratto d’uomo del taccuino B potrebbe essere verosimilmente un ritratto di Wittmer, operando un confronto del medesimo con l’autoritratto apparso nella recente pubblicazione a cura della Casa di Goethe di Roma dedicata ad una raccolta di ritratti di artisti tedeschi31. Inoltre sappiamo che nello stesso anno in cui arriva in Italia, Wittmer intraprense un viaggio che lo porterà a visitare le città di Perugia e Assisi ed infine quella di Orvieto, alla scoperta della pittura italiana da Giotto al Rinascimento. E’ ipotizzabile che alcuni fogli possano essere andati dispersi, ma la coincidenza dello stile, della datazione e della pseudofirma saltuariamente posta su questi disegni, è una conferma che il probabile compagno di viaggio dell’artista sia Koch e che dunque questo album taccuino sia stato condotto a due mani. La conferma che questi schizzi sono anche opera del disegnatore Koch l’abbiamo nella
qualità del segno, e nella precisione dei tratti. Sono necessari a questo punto alcuni confronti fra le opere di Joseph Anton Koch ed il materiale che abbiamo di fronte : se paragoniamo l’olio su tavola di Koch intitolato “Paesaggio italiano” conservato ad Erfurt all’Angermuseum, vediamo che la composizione richiama molto i disegni dedicati nel taccuino B alla zona della Caffarella, come anche il disegno conservato al Germanische Nationalmuseum di Nuernberg che ritrae un paesaggiocon la raffigurazione di Hylas e le ninfe che richiama molto i boschetti che contornano la fonte della ninfa Egeria.              
Sul disegno che ritrae la zona di S. Balbina si nota la figura incappucciata di un monaco che ritroviamo nell’olio di Koch della Kunsthalle di Kiel, nel paesaggio raffigurante le cascatelle di Tivoli. E lo stesso monaco si ritrova in primo piano nel quadro raffigurante Il convento di S. Francesco nelle colline della sabina di Koch volle probabilmente personalizzare alcuni di questi disegni, che comunque, ormai vecchio non lo vedremo utilizzare per le sue opere, ma che costituiranno la base per la produzione di Wittmer quando sarà chiamato ad elaborare  paesaggi di gusto esotico a Costantinopoli ed in Asia al seguito della corte imperiale. Oltre all’elemento stilistico dobbiamo confrontare questi disegni anche dal punto di vista calligrafico analizzando le note manoscritte. Wittmer ebbe  modo di lasciare poche opere pittoriche, alcuni ritratti e una copiosa raccolta epistolare che attesta una folta corrispondenza con alcune delle maggiori personalità della cultura tedesca dell’epoca quali ad esempio J.F. Heinrich von Schlosser (1780-1851), giurista e letterato  di Francoforte parente di Goethe, e Ottilia, la figlia adottata dallo scrittore che egli ebbe modo di conoscere in Germania e che Goethe inserì come personaggio nella sua opera “Le affinità elettive”. Questa abbondanza di documenti manoscritti ci consente di identificare la mano delle note manoscritte a margine dei disegni. Una lettera del nostro indirizzata a Schlosser è conservata presso l’Historisches Archivs der Stadt Koeln e si può facilmente notare la somiglianza calligrafica con le note apposte accanto alla palma di Terracina (12/3918). In altri fogli si nota anche una diversa calligrafia rispetto a quella ora  esaminata  che potrebbe essere quella di Koch ed è sicuramente da segnalare come la più leggibile. L’archivio di Colonia custodisce una lettera che Wittmer scrisse a Sulpiz Boisseree, un personaggio molto apprezzato come storico ed intenditore d'arte, e notevolmente introdotto nella cerchia vicina alla corte imperiale nella quale compare chiara la calligrafia di Wittmer che confrontata con quella di alcuni disegni ne potrebbe dichiarare l’autore.
 In particolare il disegno riproducente la facciata di S. Pietro a Tuscania, riporta un manoscritto dell’autore in cui la lettera della parte finale della parola è completamente sovrapponibile a quella del documento 3 di Colonia32.  Sulpiz Boissereè inoltre chiese a Wittmer di riprodurre la Kaiser – Dalmatika, ovvero il vestito custodito nelle grotte vaticane con il quale fu incoronato Carlo Magno imperatore per mano di Leone III e che doveva essere inserito all'interno di una pubblicazione redatta da Boissereè intitolata Kaiser-Dalmatika in der St.Peterskirche zu Rom edita a Monaco di Baviera nel 184033.      
I ritratti costituiscono la parte più apprezzabile dell'opera pittorica di Wittmer, e consentono di stilare una ulteriore esposizione della sua opera. Recentemente si è svolta una mostra dedicata al pittore che ha evidenziato la particolare esperienza dell'uomo e dell'artista con molti disegni, opere pittoriche e documenti sulla sua vita34. Questa mostra ci consente di confrontare le opere di Wittmer con i suoi presunti disegni e soprattutto il suo ritratto rinvenuto nel taccuino, con documenti originali e fotografici. Il suo talento come ritrattista era notevole e  prova ne è la serie di ritratti che fanno parte del suo lavoro dei quali molti di collezione privata. Abilità rivelata anche nei taccuini in particolare nel disegno ritratto della donna di Tuscania che si può tranquillamente attribuire alla mano di Wittmer35. La scarsa presenza di disegni riguardanti Roma e la campagna romana esposti nella mostra di Murnau del 2006 fanno presumere che il tassello mancante corrisponda proprio a questi taccuini che sono una testimonianza preziosa della prima conoscenza e collaborazione di Wittmer con Koch. Possiamo operare  alcuni confronti delle opere  di Wittmer con i disegni che confermerebbero tale ipotesi come ad esempio il quadro epico Esopo che racconta le sue favole al popolo, inserito in un paesaggio dove campeggia l'albero centrale e che ricorda molto il disegno raffigurante la zona della Caffarella con la riva dell'Almone dove, dietro un albero, appare un monumento greco che ritroviamo in questo dipinto.
noltre sappiamo che il nostro artista aveva eseguito un itinerario ben preciso nelle sue passeggiate romane e laziali, riportato precisamente dalla Salmen, che corrisponde perfettamente a quello descritto dai disegni36.
L'esistenza attestata dalla Salmen di uno “Skizzenbuch” redatto da Wittmer e Koch, attesta e conforta nuovamente l'attribuzione ai due artisti dei nostri taccuini. In un disegno attribuito a Koch dedicato al paesaggio Wittmer inoltre scrisse un'opera in collaborazione con Wilhelm Molitor, poeta e romanziere tedesco e prete cattolico romano37, una  guida di Roma e dintorni corredata da cartine geografiche dal titolo Rom : ein Wegweiser durch die ewige Stadt und die roemische Campagna; mit grosser topographische Karte edito a Regensburg nel 1866 e dedicato al cardinale Carl August Grafen von Reisach che ne fu il committente. Nell’ottica del genere dei taccuini di viaggio vorrei segnalare che alla pubblicazione  è allegata una Pianta dei contorni di Roma in cui sono evidenziate le strade genericamente seguite dai visitatori della Città Eterna38. All’interno sono presenti altre piante riguardanti la zona intorno a Roma fra le quali una posizionata dopo l’antiporta e subito prima del frontespizio del libro intitolata Carta di Roma e dei suoi dintorni, corredata in particolare dalla segnalazione dei luoghi archeologici più significativi dei dintorni di Roma e di una legenda in basso. Nel libro inoltre alla pagina 372 vediamo allegata un’altra cartina in dettaglio intitolata Contorni di Albano, dove viene descritta la zona intorno ai due laghi, evidenziandone anche la conformazione geologica. Alla geologia e morfologia del territorio romano, Wittmer dedica un paragrafo della pubblicazione decretando il carattere scientifico di questa guida in particolare. Molte delle guide di quegli anni edite in Germania ci illumina sul tipo di approccio degli artisti e degli studiosi tedeschi nei confronti della civiltà italiana, studiata e analizzata anche da un punto di vista geologico e morfologico del territorio. Il viandante aveva così uno strumento utile ed una guida completa di tutte le notizie per le proprie escursioni nel momento in cui doveva intraprendere il suo viaggio. I disegni infine rappresentano la fase creativa di un lavoro di ricerca molto accurato e poliedrico sulla realtà di Roma e dei suoi dintorni. Egli è definito nel frontespizio “Historienmaler in Rom” ovvero pittore storico in Roma segnalando come la sua opera artistica fosse destinata soprattutto alla documentazione della realtà locale. Questa pubblicazione, edita quando Koch era morto da circa trent’anni, testimonia  l’approfondita  conoscenza del territorio che il nostro pittore aveva acquisito, soprattutto nella peculiare descrizione dei luoghi frequentati e a quel primo taccuino composto con il futuro suocero.




     IL TACCUINO A

Il primo gruppo è costituito da 12 fogli datati fra il 1829 ed il 1830, ed è stato denominato gruppo A. Comprende principalmente la zona dei Castelli Romani con alcune vedute di basiliche importanti disseminate in quella che  allora era la Campagna Romana; sono stati redatti su una carta industriale di media qualità, di fabbricazione inglese e la datazione decorre dal luglio all’ottobre del 1829; in media i fogli misurano 260 x 220 mm. I fogli sono caratterizzati dalla filigrana “J. Whatman” della carta e dalla colorazione brunita di essa. E’ una carta industriale non vergellata e dozzinale, che risulta dunque di minore qualità rispetto a quella del taccuino successivo.
Si trova la filigrana “J.Whatman” anche nel 1812 e del 1832, la più comune in Germania è quella che presenta una diversa formazione della “A” che si ritrova in un documento dei Hannover datato al 1829.

[Fig.1]
Veduta del convento di S. Isidoro
Matita su carta brunita, 239 x 196 mm
Iscrizioni: in basso a destra manoscritto a china: “Via S. Isidoro / 1829”
Filigrana : “J.Whatmann”
(10/4056) Ritrae una veduta del convento di S. Isidoro a Roma e della scalinata attigua, sede degli artisti tedeschi e loro ricovero.Il convento fu edificato in seguioto alla santificazione, nel 1621, di Isidoro da Madrid,  premessa sulla quale un gruppo di francescani spagnoli (presto sostituiti da irlandesi) si stabilisse a Roma per intraprendere la costruzione della chiesa, su progetto di Antonio Casoni; proseguita da Domenico Castelli, fu terminata nel 1672, ebbe la facciata di gusto borrominiano, con stucchi, portico e scalinata a doppia rampa, su disegno di Francesco Carlo Bizzaccheri (1704-1705). Nella Sala, detta del Cardinale Protettore d’Irlanda, che  si trova nell’attiguo convento: si svolgeva la cerimonia della presa di possesso della protettoria. La Sala, completata nel l672, servì durante i secoli XVII e XVIII per le celebri dispute teologiche della scuola scotista. E’ decorata dagli affreschi di fra Emanuele da Como rappresentanti gli ospiti illustri del convento, la compilazione della storia dell’Ordine Francescano (Annales Minorum) del Wadding e i ritratti dei padri irlandesi che vi insegnarono e che divennero vescovi. Il disegno è composto da un paesaggio ampio,  visto probabilmente dal palazzo Barberini. Una cumulo di nuvole accennate in alto, ed una veduta estrememente ariosa con nel fondo del foglio alcune costruzioni accennate. Cronologicamente si suppone sia uno dei primi disegni redatti sul taccuino. Sulla destra è visibile la chiesa dei Cappuccini e S. Nicola da Tolentino. La scalinata porta al convento di S. Isidoro e restitutisce una veduta della zona come appariva in quell’anno. Ci troviamo infatti alla base di Piazza Barberini dove successivamente venne costruita via Veneto ( vedi M. ARMELLINI, Le chiese di Roma dal secolo IV al XIX, Roma, 1891 e, G. CARPANETO, Rione XVI Ludovisi, in AA.VV, I rioni di Roma, Newton & Compton Editori, Milano 2000, Vol. III, p  1015-1037)

[Fig.2]
Veduta della basilica di S. Costanza
Matita su carta brunita, 237 x 190 mm
Iscrizioni : in alto a destra manoscritto a china : “S. Costanza”; in basso al centro manoscritto a china : “1829”; in basso a destra manoscritto a matita : “5/29 / am 19 mit [Koch?] am S. Agnese”
Filigrana : “J.Whatmann”
(6/3785) Questo disegno raffigura una veduta della chiesa circolare di S. Costanza sulla via Nomentana, testimonia che l’artista si muoveva da sud a nord intorno alla città; in primo piano uno sterro sommario, in fondo la rotonda del mausoleo ed i resti della parte circiforme, in fondo il campanile. Nella parte sterrata appare un pastore appena accennato. Il disegno, anch’esso sommario, risulta nei tratti ricalcato piuttosto pesantemente, forse per farne delle copie. Compaiono gli alberi vorticosi mossi dal vento che costituiscono una caratteristica peculiare dell’autore ma la qualità del disegno è comunque scarsa e piuttosto frettolosa rispetto al precedente che si sofferma sui particolari. Questo tipo di schizzo può ritenersi un compedio di “studio” del soggetto.  La tradizione umanista che indicava  l'edificio come  tempio dedicato a Bacco, fece sì che esso divenne, nel XVII secolo, un ritrovo di artisti fiamminghi, riuniti in un'associazione chiamata Bentvogels (uccelli della banda). In occasione dell'ammissione di un nuovo membro nell'associazione, si celebrava una "festa del battesimo": dopo aver fatto bagordi per tutta la notte, all'alba i bentvogels si recavano al cosiddetto Sepolcro di Bacco (cioè il sepolcro di porfido che si trova all'interno del mausoleo), per un'ultima libagione. Molti dei loro nomi sono rimasti amcora incisi sugli affreschi delle nicchie.Nel 1720 Clemente XI proibì quest'uso paganeggiante dell'edificio. (vedi A. RONCALI, S. Agnese, basilica, catacombe, mausoleo di S. Costanza, Roma, 1908)

[Fig. 3]
Altra veduta della basilica di S. Costanza
Matita su carta brunita, 256 x 217 mm
Iscrizioni: in alto a destra manoscritto a china: “S. Costanza”; in basso al centro manoscritto a china: “1829”; in basso a destra manoscritto a matita: “S. Costanza / 12 juni 29”
Filigrana: “J.Whatmann”
(7/3784) La basilica di S. Costanza sorge nel mausoleo di Costanza, madre di Costantino il grande. Eretto nel IV secolo fu trasformato prima in battistero e poi in chiesa nel 1254. Fra i primi esempi conservati di edificio cristiano a pianta centrale con ambulacro. Derivato da modelli romani di templi e mausolei, ninfei, (il Pantheon, il Mausoleo di Augusto, il cosiddetto tempio di Minerva Medica) deve la caratteristica più innovativa - i due spazi circolari concentrici - a un edificio di poco precedente destinato ad influenzare l'architettura medioevale: il Martyrium del Santo Sepolcro eretto a Gerusalemme da Costantino e dalla madre Elena. Era una delle mete preferite dai viaggiatori per il suo carattere fortemente pagano e paleocristiano, soprattutto nella decorazione musiva dedicata alla vendemmia simbolica del corpo di Cristo. L'ambulacro è coperto con una volta a botte, decorata da magnifici mosaici del IV secolo, che alternano motivi geometrici, scene di vendemmia, ritratti inseriti in clipei, fra cui si potrebbero riconoscere, rispettivamente a sinistra e a destra della nicchia frontale, Costantina e il primo marito Annibaliano, re del Ponto. Tipico caso di adattamento di temi pagani alla tradizione cristiana, hanno fatto sì che il mausoleo venisse a lungo identificato con il tempio di Bacco. Il ritmo delle pareti laterali è scandito da numerose nicchie. C’è la possibilità che il taccuino fosse redatto a due mani perché nel disegno che ora mi accingo ad illustrare,  è presente un  punto di vista del monumento di S. Costanza preso da una angolazione diversa rispetto al disegno seguente. In questo la mano risulta senz’altro migliore e il segno più curata rispetto a quello precedente. I contorni sono maggiormente elaborati, anche la matita con cui è disegnato risulta più morbida e il segno più sapiente. E’ dato risalto ai grandi rampicanti dell’esedra circolare che rivela una passione per il ruinismo dell’autore. In alto a destra compare un’altra costruzione forse corrispondente all’attuale S. Giuseppe sulla via Nomentana. La scritta in alto a destra a china: “S. Costanza” è stata apposta posteriormente mentre quella in basso a destra a matita è quella da ritenersi originale. (vedi, A. A. AMADIO, I mosaici di S. Costanza, Roma, 1986)

[Fig. 4]
Veduta di Albano e Castel Gandolfo
Matita su carta brunita, 257 x 158 mm
Iscrizioni : in alto a destra manoscritto a china : “Lago di Albano – 1829”; in basso manoscritto a matita : “den Lago di Albano und Castel gandolfo aus Marino am 8 Juli 29”
Filigrana : “J.Whatmann”
(1/4028) Nel  XIII sec. a.C., sul sito dell'attuale Castel Gandolfo sorgeva Alba Longa, fondata, secondo la tradizione, dal figlio di Enea, Ascanio. Due necropoli ricche di corredi funerari sono emerse alle pendici del  Monte Cucco (corrispondente al monte perforato dal tunnel) e nel centro cittadino. Alba Longa (il toponimo rimanda al lago Albano) fu distrutta dai Romani nel VII sec. a.C. Nel  398 a.C., durante l'assedio di Veio, i Romani, per regolare il livello delle acque del lago Albano, scavarono un tunnel nella viva roccia per 1 km e mezzo: l'emissario, ancora oggi visibile, è una grandissima opera di ingegneria idraulica. E’ in età repubblicana, sulle rovine di Alba Longa che sorgono lussuose ville romane di cui restano tracce nelle residenze pontificie, sulla via Appia e sulle rive del lago Albano, dove si possono ancora ammirare il Ninfeo Dorico, i Bagni di Diana, il porticciolo e il faro. Siamo nel 1216, quando  i marchesi Gandolfi arricchiscono di un castello l'antico villaggio (forse chiamato Cuccuruttus), . La proprietà del castello passa poi ai Capizucchi e infine ai Savelli, dai quali l'acquista nel 1604 la Camera Apostolica. Il disegno lascia intravedere alcune colline e il paese turrito ed una torre isolata sulla sinistra. La zona comprende una linea d’orizzonte con sul fondo il monte Guadagnolo, dunque una veduta piuttosto ampia verso est; lo schizzo è veloce e le ombre vengono descritte con un tratteggio schematico. Nonostante l’essenzialità del disegno il movimento atmosferico è presente. Il percorso si snoda in mezzo alle colline con un attenzione particolare alla descrizione delle piante in primo piano delle quali viene delineata la forma. (vedi, A. BEDETTI,  L. ATTENNI, Castel Gandolfo, supplemento a “Forma Urbis”n.2, 2007)

[Fig.5]
Veduta di un tratto di via dei Laghi e di Marino
Matita su carta brunita, 256 x 217 mm
Iscrizioni : in alto a destra manoscritto a china : “Marino – 1829”; in basso manoscritto a matita : “am 17 Juli 29”
Filigrana : “J.Whatmann”
(2/4044) Una veduta di Marino e della attuale via dei laghi che collega Roma a Velletri passando per la zona detta dei Castelli Romani. Non è chiara l'origine del toponimo "Marino": nel Quattrocento e nel Cinquecento era convinzione diffusa negli eruditi che fosse legato ad un'ipotetica villa romana appartenuta a Gaio Mario che sarebbe sorta nel sito dell'attuale centro storico (ed in effetti rinvenimenti archeologici compatibili con una villa di età romana furono fatti nell'Ottocento nel quartiere Borgo Garibaldi): tra gli altri anche papa Pio II, in un passo dei "Commentarii" riguardante il suo "tour" dei Colli Albani del 1462, avvalorò questa tesi. Altre ipotesi sono una derivazione da "Marianum" nel senso di luogo consacrato alla Madonna (ed il santuario di Santa Maria dell'Acquasanta ha origini piuttosto antiche, databili attorno al VI secolo) o ad un "Maranum", collegato con la "marana", o ancora al nome di un antichissimo feudatario Marino o Marina di cui si è perso ad oggi il ricordo. L’immagine nel disegno è soprattutto occupata da un grande albero molto ben descritto e sulla scena viene descritta una parte del paese di Marino con un fontanile sulla sinistra e lavandaie al lavoro. Sulla destra si snoda la via dei laghi e filari di coltivazioni e vigne. La parte principale del disegno è costituita dall’albero che viene descritto minuziosamente nell’andamento dei tronchi e dei rami che si ergono verso l’alto. Sono presenti alcuni cippi lungo la strada che ne delimitano il passaggio dei quali non si trova traccia in altri disegno coevi. Potrebbero costituire un’aggiunta posteriore. (vedi B. SAVINA, R. SANSONE, La via dei Laghi, Roma, (2000), vedi anche, F.CAMPEGIANI, Sulle origini del medievale castello di Marino, in, “Castelli Romani”, n.3, marzo, 1972, p 26-27)






(Fig. 6)
Veduta di Castel Gandolfo
Matita su carta brunita, 258 x 166 mm
Iscrizioni : in alto a destra manoscritto a china : “Castel Gandolfo – 1829”; in basso a destra manoscritto a matita : “Castel Gandolfo am 19 Luglio 29”
Filigrana:  “J. Whatmann”
(3/4033) Castel Gandolfo visto dal versante del lago , in un punto della collina che scende sullo specchio d’acqua dove è situato un piccolo agglomerato diruto forse corrispondente ai resti della villa di Domiziano. Questa era ubicata sul versante occidentale della collina, in posizione dominante sul mar Tirreno. Il pendio era stato tagliato in tre grandi ripiani digradanti verso il mare. Il primo, più in alto, comprendeva le abitazioni dei servi imperiali, i vari servizi e le cisterne, alimentate dalle sorgenti di Palazzolo, poste sulla sponda opposta del lago e collegate da tre acquedotti, che riforniscono ancora l’acqua all’odierna Villa papale e a Castel Gandolfo. Sul ripiano mediano, delimitato a monte da un grande muraglione di sostruzione, interrotto da quattro ninfei a pianta alternatamente rettangolare e semicircolare, sorgevano il palazzo imperiale ed il teatro. Risalendo un poco, e prendendo la via di Albano, a destra, si scende in una valle profonda coperta di alberi folti dove si trova la valle Ferentina, così detta per essere consacrata alla dea Ferentina assimilata a quella di Diana dove si tenevano le diete generali della nazione. Ci riferisce Nibby : “ Nel fondo più stretto di questa valle sorge un'acqua limpida, che si pretende essere uno scolo naturale del Lago Albano, e che gli abitanti di Marino, al cui uso serve molto, appellano il Capo d'acqua. Questa sorgente è il celebre Caput aquae Ferentinae dove gl'intrighi di Tarquinio il Superbo, siccome narrano Dionigi nel lib. IV.   247., e seg., e Livio nel lib. I. c. 19 fecero annegare Turno Erdonio Aricino, che nella dieta generale de' Latini si mostrò fortemente contrario ai disegni suoi. Ecco come Livio dopo avere narrato a lungo il tradimento di Tarquinio, descrive la morte di quel prode: “Ibi tam atrox invidia orta est, gladiis in medio positis, ut, indicta caussa novo genere lethi, dejectus ad caput aquae Ferentinae, crate superne injecta, saxisque congestis mergeretur” (vedi Tito Livio, Storia di Roma :  Libro I : Le origini e la monarchia, Bologna, 1963; vol. I). E’ da notare il dato atmosferico del cielo striato di nuvole e il consueto movimento di fronde. Sulla sinistra in alto appare il contorno del paese che si snoda sulla collina ed in basso si riconosce parte dello specchio del lago. Il segno lascia intuire la continuità delle colline e dei versanti che vengono ritratti dal pittore.(vedi A. NIBBY, Guida di Roma e  suoi dintorni, Roma, 1891)

(Fig.7)
Veduta di Rocca di Papa e del Monte Cavo
Matita su carta brunita, 254 x 178 mm
Iscrizioni : in alto a destra manoscritto a penna : “Rocca di papa 1829”; in basso a sinistra : “Rocca di papa e Monte Cave / preso nella …. Di castanie / 20 Juli 29”
Filigrana : “J.Whatmann”
(4/4053) Questo itinerario fu eseguito in estate, infatti il foglio successivo illustra un paesaggio della campagna con in lontananza la veduta delle colline nei dintorni di Rocca di Papa e la linea delimitante la boscaglia in primo piano. Dominata da Monte Cavo, sorge a 730 metri s.l.m. e conta 13.000 abitanti. La Rocca fortificata eretta sui resti dell'antica città di Cabum, fu meta di soggiorno per Papa Eugenio III, al quale Rocca di Papa deve il nome. Fu dichiarata, in seguito a ribellioni, la Repubblica di Rocca di Papa, ma ebbe vita breve, subito sottomessa dalle Forze Pontificie. Oggi Rocca di Papa è una ricca cittadina dominata da lussureggiante flora che si estende su Monte Cavo. Il disegno che qui presentiamo è veloce e sommario ; determinante è la visione del dato atmosferico delle nuvole. Esso reca in basso la data del 20 luglio del ‘29 insieme alla descrizione del in questo caso redatto in italiano.E’ possibile che l’autore stia percoprrendo la via dei Laghi attuale che si snoda attraverso alcune delle zone descritte. (vedi T.  BASILI, Rocca di Papa (Albalonga), appunti di storia, 1976)

(Fig. 8)
Bosco di castagni fra Rocca di Papa e Grottaferrata
Matita su carta brunita, 259 x 217 mm
Iscrizioni : in alto a destra manoscritto a china : “Via da Rocca di Papa a Grott. Ferrata 1829”; in basso a destra manoscritto a matita : “…. Rocca di papa zum grotta Ferada / li 20 Luglio 29”
Filigrana : “J.Whatmann”
(5/4054) Il disegno si sofferma su parte della strada che da Rocca di Papa va a Grottaferrata un tratto di bosco con grandi alberi fra i quali si intravede un casolare. La cittadina di Grottaferrata ha il suo nucleo storico principalmente legato all’abbazia di S. Nilo. Quando, nel 1004, San Nilo da Rossano ed i suoi seguaci presero possesso del terreno rurale occupato da ruderi di una villa romana, che Gregorio I dei Conti di Tuscolo aveva loro donato come residenza, notarono subito un locale a volta quasi perfettamente conservato dotato di una finestra con ferrata. Probabilmente il primo accampamento dei monaci fu nei paraggi, se non all'interno, della "cripta" ferrata, che diventò elemento caratterizzante del territorio: lentamente l'area, che non aveva una denominazione specifica, prese nome di Cryptaferrata. Tornando alla descrizione del nostro disegno che comprende una zona limitrofa l’abitato, si notano a destra alcune figurine simili a  ninfe le quali potevano costituire uno spunto per  composizioni di carattere epico o mitologico che venivano inserite in una veduta dal vero. Questa doveva essere vagamente riconoscibile per collegarla alla memoria collettiva dal vero, che parlasse in sintesi dell’esperienza dell’antico intrapresa dall’artista. Le fronde sono ben delineate, l’andamento irregolare del terreno è particolarmente curato con linee che seguono l’ondulazione delle zolle. Risultano molto ben descritti i tronchi degli alberi e l’intreccio dei rami per il quale l’artista mostra un interesse notevole.(vedi F. ALOISI, R. LUCIANI,  Grottaferrata, memorie, presenze, percorsi, Grottaferrata, 1992)



[Fig.9]
Veduta di Villa Adriana a Tivoli
Matita su carta brunita, 260 x 197 mm
Iscrizioni : in alto a destra manoscritto : “Tivoli – Villa Adriana – 1829”; in basso al centro manoscritto a matita : “… der Villa von Hadrians … Tivoli 26 oct. 29”
Filigrana:  “J. Whatmann”
(8/3995) Il disegno rappresenta una veduta di Villa Adriana  con i suoi ruderi immersi nei cipressi. La Villa Adriana di Tivoli fu costruita a partire dal 117 d.C. dall'imperatore Adriano come sua residenza imperiale lontana da Roma, ed è la più importante e complessa Villa a noi rimasta dell'antichità romana, essendo vasta come e più di Pompei (almeno 80 ettari).  Villa Adriana visse fino alla tarda antichità e, dopo esser stata saccheggiata da Totila, conobbe lunghi secoli di oblio, durante i quali divenne "Tivoli Vecchio", ridotta a cava di mattoni e di marmi per la vicina città di Tivoli, importante sede vescovile. Alla fine del Quattrocento, Biondo Flavio la identificò nuovamente come la Villa dell'Imperatore Adriano di cui parlava l'Historia Augusta, e nello stesso periodo Papa Alessandro VI Borgia promosse i primi scavi all'Odeon, durante i quali vennero scoperte le statue di Muse sedute attualmente al Museo del Prado di Madrid. La sua fama fu consacrata da Papa Pio II Piccolomini, che la visitò e descrisse nei suoi Commentarii. Una descrizione della villa piuttosto dettagliata fu compilata da Antonio Nibby nella “Descrizione della villa Adriana” del 1827. Il tratto è accennato e sono pesantemente rese le foglie e le fronde che li coprono dai quali si scorge un frammento di volta e qualche muro diruto. Sul retro compare il monte su cui poggia il paese di Tivoli, appena accennato, mentre il resto viene ricalcato pesantemente. Anche qui il segno lascia intuire una continuità del disegno. Il tratto risulta maggiormente pesante nella parte centrale che è il fulcro della composizione. (vedi ,  H. WINNEFELD,  Die Villa des Hadrian bei Tivoli in “Jahrbuch des Deutsches Archäologisces Instituts Rom”, 5, 1895, vedi anche, G. LUGLI, Studi topografici intorno alle antiche ville suburbane: Villa Adriana, le fasi della Villa da Adriano al tardo impero, in “Bullettino Commissione Archeologica Comunale di Roma”,  1932,   111-176)

[Fig.10]
Veduta di Villa d’Este a Tivoli
Matita su carta brunita, 259 x 218 mm
Iscrizioni : in alto a destra manoscritto a china  : “ Tivoli – Villa d’Este – 1829”; in basso manoscritto a matita : “Die Villa Macenas und d’Este im Tivoli 28 oct 29”
Filigrana:  “J. Whatmann”
(9/3983) Il disegno rappresenta la prosecuzione dell’escursione sulla via Tiburtina verso Tivoli, con una veduta dal basso dei muri di contenimento esterni di Villa D’Este, le arcate alte ed i contrafforti. A metà alcune casette; in alto si distingue l’edificio principale della Villa D’Este con il campanile della chiesa di Santa Maria Maggiore e, in alto, la torre del castello dei Borgia. La villa fu voluta dal cardinale Ippolito II d'Este, figlio di Alfonso I e di Lucrezia Borgia (Ferrara 1509 - Tivoli 1572). La storia della Villa sono collegate con quelle del cardinale soprattutto per il sostanziale contributo dato dal cardinale d'Este alla propria elezione, nel 1550, Papa Giulio III del Monte volle ringraziarlo nominandolo governatore a vita di Tivoli e del suo territorio. Il cardinale arrivò a Tivoli il 9 settembre e vi fece un'entrata trionfale, scoprendo però che la residenza del governatore era un vecchio convento benedettino, occupato a quel tempo dai francescani e da loro parzialmente riadattato. Ippolito, grande cultore di antichità romane, era molto interessato ai reperti che abbondavano nella zona e decise di trasformare il convento in una villa che ne raccogliesse alcune. La villa avrebbe dovuto essere alla pari del grandioso palazzo che stava contemporaneamente facendo costruire a Roma, a Monte Giordano; così come il palazzo romano doveva servire ai ricevimenti formali ed ufficiali, doveva fungere da piacevole luogo d'incontri e colloqui più lunghi e meditati. Governatore di Tivoli dal 1550, carezzò subito l’idea di realizzare un giardino nel pendio dirupato della “Valle gaudente”, ma soltanto dopo il 1560 si chiarì il programma architettonico e iconologico della Villa, ideato dal pittore-archeologo-architetto Pirro Ligorio e realizzato dall’architetto di corte Alberto Galvani. Le sale del Palazzo vennero decorate sotto la direzione di protagonisti del tardo manierismo romano come Livio Agresti, Federico Zuccari, Durante Alberti, Girolamo Muziano, Cesare Nebbia e Antonio Tempesta. La sistemazione era quasi completata alla morte del cardinale (1572). Sul foglio viene descritta una cascata che fluisce dai muri del terrapieno e verso destra altre piccole cascatelle che determinano l’andamento geologico della collina. Il tratto è  sottile e descrittivo appartenente alla produzione migliore in questi disegni. (Cfr. I.BARISI, M. FAGIOLO, M.L. MADONNA, Villa d’Este, Roma, 2003)

[Fig.11]
Disegno parziale della decorazione dell’abside della basilica dei SS. Cosma e Damiano a Roma
Matita su carta brunita, 262 x 218 mm
Iscrizioni : sul verso in basso manoscritto a matita : “Amphiteatro di Sutri 17 Sept 1830” (riferita probabilmente al foglio precedentemente illustrato di cui è parte, vedi segni della legatura laterale)
Filigrana:  “J. Whatmann”
(12/1242) Il nostro disegnatore si sofferma nel seguente disegno sulla riproduzione di alcuni mosaici ripresi dall’abside della basilica dei SS. Cosma e Damiano a Roma, dando così la certezza che il suo viaggio in realtà era costituito da una serie di escursioni giornaliere con ritorno a Roma. La chiesa posta proprio sulle rovine del Foro Romano, costituita da due edifici di origine classica quali la Biblioteca del Foro della Pace ed un’aula del Tempio del Divo Romolo sulla via Sacra. Fu donata da Teodorico e Amalasunta a Felice IV (526-530) che fu l’autore del riadattamento delle due strutture e della commissione del mosaico appena descritto.  Mosaici risalgono al VI-VII secolo e solo quelli del catino risalgono al tempo di Felice IV, e rappresentano Cristo fra i Ss.  Pietro e Paolo che presentano i Ss. Cosma e Damiano accompaganti da S. Teodoro e Felice IV. L’attuale assetto della chiesa è quella dovuta ai lavori del Lanciani attuati nel 1880 e poi più recentemente da Apolloni Ghetti. Il disegno riferendosi ad una zona diversa dal precedente rivela  l’andamento spesso del tutto casuale della gestione del taccuino stesso. Il segno è sommario e non fa capire che sia un mosaico né tramite le consuete note né con un cenno grafico. Viene tuttavia segnalata la scritta “IORDANES”  facente parte della composizione dell’abside.  L’abside dopo i lavori di innalzamento di circa 7 metri dal livello del terreno, svolti durante il pontificato di Urbano VIII, rese la visione della scena ancora più suggestiva al novello visitatore. (Vedi, R. BUDRIESI, La basilica dei SS. Cosma e Damiano, Bologna, [1968] e cfr.  L. TUCCI, Nuove acquisizioni sulla basilica dei Santi Cosma e Damiano, in, “Studi Romani”, n.3-4, luglio-dicembre 2001, p 275 - 293)

(Fig.12)
Veduta della cavea dell’anfiteatro di Sutri (recto)
Matita su carta brunita, 282 x 218 mm
Iscrizioni : nel verso è presente una lunga descrizione in tedesco della facciata del duomo di Orvieto e al centro : “Il duomo di Orvieto li 19 Sept 1830”
Filigrana:  “J. Whatmann”
(11/1243a) Il seguente disegno indica sul recto una nuova partenza verso la campagna a nord di Roma a Sutri. Il folio descrive tutta la conca dell’anfiteatro con gli accessi e le scalinate e con il folto boschetto in alto a destra. Fino alla fine del  XVIII secolo giaceva quasi completamente interrato e come tale destinato a colture agricole. E’ notorio che fu parzialmente riportato alla luce tra il 1835 e il 1838 ad opera della famiglia Savorelli. Precedentemente doveva essere stato comunque anche solo parzialmente visibile perché vi venivano celebrate alcune ricorrenze del paese. Questa imponente opera, interamente ricavata nel tufo di una collina risale probabilmente all’epoca romana tra la fine del II sec. a.C. ed il I sec. d.C. L’anfiteatro era posizionato sulla sinistra della via Cassia, ed era arricchito da un cerchio finale di colonne, statue e nicchie, ancora oggi in parte riconoscibili lungo il perimetro della parete circostante. Organizzato su pianta ellittica con tre ordini di gradinate alle quali si accedeva attraverso un funzionale sistema distributivo, poteva contenere oltre 9000 persone. Si trova vicino ad una necropoli ed alla chiesa. Sita oggi, come in epoca antica a ridosso della via Cassia che correva ad una quota notevolmente più bassa dell'attuale, la necropoli costituisce uno degli esempi più rilevanti e consistenti di tombe di età romana scavate nel tufo. Sono oggi visibili complessivamente 64 tombe, completamente ricavate nella parete tufacea, con evidente sfruttamento intensivo della stessa, e disposte su più livelli. Non si hanno notizie di scavi sistematici o di rinvenimento casuali nell' ambito della necropoli; probabilmente già depredate e saccheggiate nel primo medioevo, le tombe hanno subito nel corso dei secoli un ininterrotto processo di alterazione e manomissione. La chiesa o cappella di Santa Maria del Tempio o Cappella dei Cavalieri di Malta,Chiesa del grande Ordine Templare risalente alla metà del 1200, posta sulla Via Francigena. Struttura tipicamente rinascimentale con pochi fregi e decorazioni esterne (XV sec.) con all’interno un unico altare, dedicato a S.Maria del Tempio: due grandi Angeli acefali sorreggono una cornice con tre immagini sacre affrescate. Al centro si trova l’immagine della Madonna con Bambino (di autore ignoto) di stile tardobarocco. Sopra la cornice tre Angeli attorniano il mezzo busto benedicente di Dio Padre. Dopo la soppressione dell'ordine dei Templari la chiesa è stata trasferita in proprietà ai Cavalieri di Malta.Questo disegno costituisce un documento di una possibile discoperta dell’anfiteatro anticipata rispetto a quanto le fonti ci narrano. Il foglio risulta infatti datato al 1830 anno del passaggio del disegnatore in questo luogo, il quale si trovò di fronte ad una cavea quasi del tutto dissotterrata. (Vedi C. NISPI - LANDI, Storia dell’antichissima città di Sutri, Roma, 1887 e cfr.   SESTIERI, L’anfiteatro di Sutri, in,”Palladio”, VI, 1939 ).

(Fig.13)
Veduta della facciata del duomo d’Orvieto (verso)
Matita su carta brunita, 282 x 218 mm
Iscrizioni : nel verso è presente una lunga descrizione in tedesco presumibilmente della facciata del duomo di Orvieto e al centro : “Il duomo di Orvieto li 19 Sept 1830”
Filigrana : “J.Whatmann”
(11/1243b) La facciata del duomo di Orvieto suscitò n quegli anni molto interesse come spesso lo suscitarono le opere medioevali. In uno dei fogli illustrati nella scheda precedente, compare un brano manoscritto indecifrabile che tuttavia da alcune parole si intuisce essere una lunga spiegazione delle statue presenti sulla facciata. Il documento è formato da un foglio a quattro facciate di risma superstite dell’album dove sono apposte alcune note manoscritte illeggibili ma che intuitivamente possono essere considerate delle spiegazioni delle statue e dei cicli della facciata del duomo. La costruzione della chiesa, avviata nel 1290 per volontà di papa Niccolò IV per dare giusta collocazione al Corporale del Miracolo di Bolsena, si protrasse per circa un secolo. Disegnato in stile romanico da Arnolfo di Cambio, inizialmente la direzione dei lavori fu affidata a fra Bevignate da Perugia. Nel 1310 venne chiamato a dirigere il cantiere Lorenzo Maitani autore della fastosa facciata attuale, considerata una sorta di trittico impreziosito da mosaici e sculture, aperto al centro dal magnifico rosone. I rilievi scolpiti, sono attribuiti al Maitani e a vari artisti minori del secolo XIV. I mosaici, tra cui quello della cuspide con l'Incoronazione della Vergine, sono stati nei secoli pesantemente restaurati e ricollocati.  Notevole è il portale centrale, inquadrato come i due laterali da un profondo strombo, e rivestito da lastre bronzee che narrano opere di misericordia. Dalla fine del '700 la fronte della cattedrale subì importanti interventi di restauro diretti dall'architetto Giuseppe Valadier. Egli intervenne nella  guglia alta di destra, nelle due statue degli Apostoli e nelle nicchie sotto il frontespizio. Il resto della decorazione come il mosaico di S. Gregorio intorno al rosone, l'Agnus Dei in bronzo (1796-1806), continuarono per tutto il secolo successivo.(vedi   MARCONI, Giuseppe Valadier, Roma, 1964 e vedi, L. FUMI, Il duomo di Orvieto e i suoi restauri, Roma, 1891).

IL TACCUINO B


Il taccuino denominato B è costituito da 38 fogli disegnati a matita su una carta di buona fattura vergellata in dimensioni diverse dai disegni del gruppo precedente(31 x 19 cm), questo appare uniforme nelle misure e spesso utilizzato anch’esso nel retro. Le datazioni poste in parte in tedesco ed in parte in italiano vanno dall’aprile al novembre del 1831. Le indicazioni poste a china quasi su tutti i fogli sono certamente non autografe del disegnatore, ma sono state poste successivamente da chi diede un primo ordine a queste carte. Sono considerabili d’epoca, e precedenti al 1900. Le indicazioni a matita sono autografe del disegnatore o dei disegnatori come supposto e spesso riportano alcune descrizioni dei colori e della forma dei soggetti disegnati. Si riscontra il punto di raccordo del taccuino sul lato lungo in alto dove compare in ogni foglio un profilo irregolare  e alcuni fogli risultano molto deteriorati, altri addirittura mutili. La filigrana è contrassegnata da due palme, coronate con dei gigli al centro carta riscontrata da Heawood in altre pubblicazioni conservate a Palermo.


[Fig.13]
Ponte romano nei pressi di Santa Marinella
Matita su carta vergellata, 310 x 200 mm
Descrizione : il foglio  presenta mutilo nell’angolo in basso a sinistra, e con due strappi sul lato breve a sinistra, sul retro uno schizzo parziale raffigurante il collo di un cavallo
Iscrizioni: in basso a destra : “A. S. Marinella 20 A.30”
Filigrana : marca “corona” di  Palermo del 1783 (vedi Heawood, 1981;  Piccard, 1961)
(1/3926) Il primo disegno che apre questo taccuino raffigura la veduta di un ponte denominato oggi “Ponte di largo impero”, che si trova nei pressi di Santa Marinella, per molti viaggiatori era fonte d’ispirazione. Nel territorio di Santa Marinella si conservano, ancora visibili, alcuni ponti della Via Aurelia, strada di collegamento tra Roma, l’Etruria costiera e la Liguria. Probabilmente fu fondata dopo la deduzione delle colonie marittime di Alsium, Pyrgi, Castrum Novum e Cosa, avvenuta tra il 273 e il 247 a.C.
E’ probabile che la costruzione sia iniziata nel 241 a.C., anno in cui fu censore Gaio Aurelio Cotta, nominato in un cippo miliario scoperto presso Vulci, dove terminava il tratto più antico della strada. Come tutte le grandi arterie di comunicazione costruite dagli ingegneri romani durante l'espansione del dominio di Roma, anche l'Aurelia era stata concepita per assicurare una efficace percorrenza con ogni condizione stagionale. Particolare cura era stata posta all'attraversamento dei numerosi corsi d'acqua, che, nascendo dai rilievi dell'entroterra, si gettano in mare quasi sempre dopo un breve e tumultuoso percorso. D'estate questi torrenti appaiono scarsi e innocui , ma sono capaci di liberare grandi masse d'acqua durante il periodo invernale, rendendo impraticabile la strada. Furono perciò edificati numerosi, solidi ponti in pietra che permettevano di percorrere l'Aurelia anche nella stagione invernale. A destra il disegno è mancante di una parte del foglio; probabilmente lo era già prima che vi fosse prodotto il disegno perché la data del 20 aprile è situata al di sopra della lesione. Lo schizzo è di buona fattura e la mano è molto precisa nel delineare i conci di pietra dell’arcata (F. ENEI, Santa Marinella, (1996),  5).

[Fig.14]
Veduta del castello Odescalchi di Santa Marinella
Matita su carta vergellata, 302 x 174 mm
Iscrizioni : in alto a destra manoscritto a china : “S. Marinella – 1831”; in basso a sinistra manoscritto a matita : “Porto ad Punicum / oggi  S.ta Marinella / 20 Aprile 31”
Filigrana : marca “corona” di  Palermo del 1783 (vedi Heawood, 1981;  Piccard, 1961)
(2/3927) Il foglio è di formato più piccolo rispetto agli altri, e raffigura il castello Odescalchi di Santa Marinella e l’antico porto. Il Castello attorniato da palme e pini marittimi, domina il porticciolo turistico di Santa Marinella, e  sorge sui resti dell’antica “Punicum” e della Villa di Ulpiano.
Caratteristica la pianta a tre torri angolari ed una, centrale che costituisce il nucleo più antico della costruzione.Essa fu costruita probabilmente a protezione del piccolo centro abitato che vi sorgeva intorno all’XI secolo, provvisto di un centro di culto costruito, come vuole la tradizione, da una comunità di monaci basiliani, devoti a Santa Marina, giovane martire cristiana, che dette il nome alla località. Il Castello fu edificato nel XV secolo, inglobando l’antica torre cilindrica e reso più forte nel XVII sec. dalla costruzione dei bastioni. Un grande porto, che avrebbe dovuto spostare su Santa Marinella parte del traffico di Civitavecchia, ma i lavori furono  avviati nel 1634 da Papa Urbano VII, non furono mai completati. Il Castello passò dai  Vico agli Anguillara, successivamente agli Orsini, e poi come proprietà dell’Ospedale di S. Spirito in Sassia. Infine, dal 1887, gli Odescalchi ne assunsero la proprietà  che rimane tuttora. Tornando al disegno, sulla sinistra si intravede il ponte precedentemente descritto che affaccia sul mare e sulla destra un casaletto seguito dal castello Odescalchi; al centro ciò che rimaneva dell’antico porto detto anche “Ad Punicum”. La mano si sofferma nuovamente sulla descrizione del ponte antico e sorvola sui particolari del castello e del porto, quasi a sottolineare il percorso che era stato fatto. I due fogli infatti dipendono cronologicamente l’uno dall’altro (vedi G. SACCHETTI, Santa Marinella, in, “Archivio della Società Romana di Storia Patria”, vol. 103, 1980, p  235-281)




[Fig.15]
Decorazione parietale di alcune tombe etrusche di Tarquinia
Matita su carta vergellata, 310 x 212 mm
Descrizione : questo foglio è legato ad altri due disegni , denominati a e c che costituiscono una parte ancora rilegata dell’album originale.
Iscrizioni : in basso a sinistra manoscritto a matita : “Die antike grabmal in Corneto 22 April 31”
Filigrana : marca “corona” di Palermo del 1783 (vedi Heawood, 1981;  Piccard, 1961)
 (3/1250b) Il seguente si trova sempre sullo stesso foglio dando per la prima volta il senso dell’unità del taccuino, e reca la descrizione della decorazione parietale di alcune tombe etrusche da lui visitate a Tarquinia. La sua presenza è evidenziata nella riproduzione al centro dove si staglia una figuretta in piedi appena accennata. Si distingue al centro una scena vagamente ispirata a quelle dei banchetti della cosidetta “tomba dei Leopardi” dove compare un corteo di suonatori con il caratteristico soffitto a scacchiera rosso e verde. Ma è più probabile che il disegno possa riferirsi alla prima tomba venuta alla luce del complesso di Tarquinia, la cosiddetta tomba delle “Bighe” denominata anche “ Stackelberg” dal nome dell'archeologo tedesco che la scoprì nel 1827 proprio perché tutte le altre sono state rinvenute a posteriori rispetto alla datazione dei disegni. Già allora le pitture erano gravemente deteriorate e, affinchè non andassero definitivamente perdute, nel 1949 furono staccate ed oggi sono conservate nel Museo Nazionale di Tarquinia. Le scene rappresentano un fastoso banchetto, ma ciò che caratterizza la tomba è il fregio in cui sono illustrati i giochi pubblici, forse quelli che si svolsero a Tarquinia nel V secolo. E’ pur vero che da un rapido sguardo ai disegni l’ispirazione del disegnatore racchiude una panoramica tipologica su molte delle tombe esistenti a Tarquinia. soltanto a Tarquinia sono state rinvenute, in numero così cospicuo, tombe dalle pareti dipinte che testimoniano della concezione che gli Etruschi avevano dell'Aldilà e dei costumi che caratterizzavano la loro vita quotidiana.  Durante il VII secolo a.C. si realizza in Etruria il passaggio graduale dalle tombe a pozzetto degli incineratori alle tombe a fossa degli inumatori, le fosse si trasformano via via in camere sepolcrali sempre più vaste, più ornate e ricche di suppellettili d'importazione fabbricate con uno stile che risente dell'influenza culturale ed artistica dei popoli orientali del Mediterraneo, tanto che si usa definire questo periodo "orientalizzante". Dal VI secolo a.C. iniziano a comparire le prime tombe dipinte di Tarquinia cui sono affidate, a causa della perdita delle testimonianze dirette e scritte della civiltà etrusca. I temi ricorrenti delle pitture funebri tarquiniesi sono: banchetti, musiche, danze, giochi e più tardi, quando la civiltà etrusca era in declino, mostri demoniaci. E' comunque costante la rappresentazione del trapasso come un vero e proprio itinerario, un passaggio verso un nuovo mondo, da compiere a piedi o a cavallo, o su un carro, ovvero attraversando una palude o un fiume (Vedi, M. BONGHI JOVINO, Città sepolte d’Etruria: storie e memorie dello scavo di Tarquinia, Milano, 2005)


[Fig.16]
Veduta del castello diruto di Tuscania
Matita su carta vergellata, 310 x 212 mm
Descrizione : questo foglio è legato ad altri due disegni , denominati a e b che costituiscono una parte ancora rilegata dell’album originale.
Iscrizioni : in basso a destra manoscritto a matita : “In Toscanella”
Filigrana : marca “corona” di Palermo del 1783 (vedi Heawood, 1981;  Piccard, 1961)
(3/1250c) Nel disegno vediamo come il disegnatore fosse interessato ai ruderi medievali del castello diruto, dal quale si vede la basilca di S. Pietro. In basso accennata una figura umana accanto ad un carro. Il disegno si presenta essenziale e schizzato, con pochi segni indicativi. Una prima cinta muraria fu costruita in epoca etrusca, a protezione dell'originario insediamento abitativo.Nei secoli successivi, il sistema difensivo subì varie modifiche in epoche diverse, tanto da cambiare sia lo sviluppo perimetrale che l'ubicazione stessa. In epoca medievale, infatti, la città andava sviluppandosi in zone diverse da quelle del primitivo nucleo abitato, portando quindi alla necessità di proteggere l'area su cui si stava sviluppando la città durante quel periodo.Proprio durante il Medioevo, andò definendosi quello che sarebbe stato il perimetro murario definitivo a difesa del centro cittadino, lungo il cui decorso venne ulteriormente fortificato da torri di avvistamento che si elevavano oltre la vetta della cortina muraria per svolgere al meglio le funzioni difensive. La fortificazione medievale della cerchia muraria si verificò prevalentemente quando Tuscania era controllata dagli Aldobrandeschi, che lasciarono testimonianze del loro dominio nei vari centri della loro contea, ben identificabili con imponenti architetture militari.Tuttavia, le mire espansionistiche dello Stato della Chiesa verso nord, il cui confine si trovava a brevissima distanza dalla città, esponevano la stessa Tuscania e le sue strutture difensive alla possibilità di assalti. Durante il Quattrocento, furono condotti due assedi, prima dalle truppe del cardinale Vitelleschi e poi da quelle di Carlo VIII di Francia: durante questi attacchi, furono gravemente danneggiate sia le porte di accesso che le torri di guardia, oltre ad alcuni tratti della cortina muraria. In epoca post-cinquecentesca, iniziò la ricostruzione dei tratti di mura demoliti e la ristrutturazione di alcune strutture danneggiate che potevano essere recuperate. Questa lunga opera di riqualificazione della cinta muraria portò alla ridefinizione della cerchia, tranne una porzione attorno ad un colle che costituisce tuttora una soluzione di continuità del perimetro murario (Vedi J. RASPI SERRA, o cit.   31, 1971)

[Fig.17]
Facciata della chiesa di S. Pietro a Tuscania
Matita su carta vergellata, 310 x 212 mm
Descrizione : questo foglio è legato ad altri due disegni , denominati b e c che costituiscono una parte ancora rilegata dell’album originale.
Iscrizioni : in basso a sinistra manoscritto a matita : “St. Pietro / … chiesa in Toscanella / 23 April 31 …. “, segue una descrizione della chiesa  indecifrabile
Filigrana  : marca “corona” Palermo del 1783 (vedi Heawood, 1981;  Piccard, 1961)
 (3/1250a) Il disegno raffigura la facciata di S. Pietro a Tuscania, corredato da una lunga spiegazione in basso. San Pietro, uno dei più interessanti monumenti del Medioevo italiano, è una magnifica chiesa romanico-lombarda che rivela, influenze cosmatesche, umbre e pisane. La chiesa che risale all'VIII secolo, ampliata e ricostruita nel XII possiede un Rosone con i simboli dei 4 evangelisti. Il mistico e semplice interno a tre navate ha un pavimento cosmatesco e notevoli affreschi bizantineggianti del sec. XII. Vasta cripta a nove navate su colonne provenienti da edifici romani. Altre due chiese degne di nota sono: S. Maria della Rosa e S. Maria del Riposo, entrambe con dovizia d'opere d'arte. Il primitivo edificio, di cui restano la parte posteriore e buona parte di quella anteriore, fu eretto nel secolo VIII, per opera di maestri comacini venuti da Roma, quando Tuscania venne donata da Carlo Magno alla Chiesa. Passata la città di nuovo agli imperatori e, nel sec. XII ancora ai papi, la chiesa fu rifatta nella parte anteriore, e si diede inizio alla facciata che fu conclusa, con il pavimento musivo, nella prima metà del sec. XIII. La chiesa subì in seguito (1443, 1450, 1500, 1734, primi anni dell'Ottocento e diverse volte nel corso di questo secolo) manomissioni e restauri.  Il segno descrittivo anche dei particolari decorativi scultorei della facciata, si sofferma sul rosone, e sulle chimere laterali. L’intento è senz’altro quello dello studio architettonico. Sulla sinistra del foglio si erge la torre vescovile detta “del Lavello”. Al centro a destra si intuisce la sagoma di un somaro al pascolo (vedi B.M., APOLLONI GHETTI, La chiesa di S. Pietro a Tuscania, in, Miscellanea di Studi Viterbesi, (1962), p  9-18 e vedi anche, J. RASPI SERRA, Tuscania: cultura ed espressione artistica di un centro medioevale, Venezia, 1971)

[Fig. 18]
Veduta della chiesa di S. Pietro a Tuscania
Matita su carta vergellata, 310 x 212 mm
Iscrizioni : in basso a destra manoscritto a matita : “S. Pietro in Toscanella 24 April 31”; in basso a sinistra manoscritto a matita indecifrabile
Filigrana : marca “corona” di Palermo del 1783 (vedi Heawood, 1981;  Piccard, 1961)
5/1245 Il disegno ripercorre la zona dove è situata la chiesa di S. Pietro per una veduta d’insieme della facciata, del palazzo vescovile al lato e della torre. L'area ove insisteva l'abitato etrusco corrisponde assai verosimilmente al colle della città moderna, con propaggini sino a quello di San Pietro, mentre a sud del moderno abitato si sviluppò la città romana, in corrispondenza delle due alture ove si situano le chiese romaniche di San Pietro (le mura della quale poggiano su quelle etrusche) e di Santa Maria. Scavi condotti negli anni Settanta sul colle di San Pietro hanno infatti fruttato la scoperta di un villaggio di capanne protostorico al quale, dal VII secolo a.C., si sovrappose l'abitato etrusco destinato a occuparne l' area sino ad epoca ellenistica. Sono numerose le necropoli tuscanesi, concentrate soprattutto a nord e a sud del colle di San Pietro, e assai caratteristiche per le molteplici tipologie tombali adottate nel corso del tempo; le necropoli settentrionali - Peschiera, Pian di Mola, Castelluccio - si distribuivano lungo le valli del Maschiolo e del Marta, mentre sul versante opposto erano i plessi cemeteriali di Ara del Tufo, Madonna dell’OlIvo, Scalette, Carcarello e Sasso Pizzuto. Le nuvole e gli uccelli lambiscono il cielo che esprime la propria luminosità grazie a pochi sapienti segni sul foglio. Il viaggiatore si ritrae probabilmemte di spalle sotto l’arco a destra in contemplazione della basilica. Sono ben visibili in questa veduta le alte torri che costeggiano la basilica e lo stormire degli uccelli intorno alla cima della torre.Una buona resa anche nel delineare accennando il susseguirsi delle colline retrostanti la struttura del complesso monumentale.(Vedi J. RASPI SERRA, o cit., 1971)

[Fig.19]
Ritratto di Domenica Quarandotti
Matita su carta vergellata, 212 x 310 mm
Iscrizioni : in basso a destra manoscritto a matita : “Domenica Quarandotti  / a Toscanella li 24 Aprile 31”
Filigrana : marca “corona” di  Palermo del 1783 (vedi Heawood, 1981;  Piccard, 1961)
 (4/1244) Il seguente raffigura il ritratto di “Domenica Quarandotti a Toscanella li 24 aprile 31”; un segno sottile e schematico, continuo che descrive particolari delle perle, dei tratti del volto e l’acconciatura dei capelli, facendone capire la luminosità. In basso il disegno si semplifica indicando le mani conserte con alcuni tratti appena accennati. Visti i numerosi fogli che vi dedica,  il 24 aprile per il pittore  rappresenta una data importante dovuta alla scoperta di Tuscania. In questo contesto egli ha voluto abbinare il volto antico e quello moderno del luogo seguendo quell’interesse antropologico di cui già abbiamo parlato che spesso caratterizza questo tipo di raccolte. Questo ritratto denota una conoscenza  della realtà locale che prelude ad una sua permanenza nel luogo protratta nel tempo.  Il tipo di donna ritratto è molto giovane ed il segno rivela una mano particolarmente capace nel rendere la forma dei vestiti, l’espressione della giovane ed il suo stato d’animo. (B. CINELLI, Il ritratto dell’artista, in, Maestà di Roma, Venezia, 2003)

[Fig.20], [Fig. 21]
Veduta di un tratto del fiume Marta
Matita su carta vergellata, 310 x 212 mm / 310 x 212 mm
Iscrizioni : a) in basso a destra manoscritto : “La cascada della Marta vicina Toscanella 24 April 31”; b) in basso a destra manoscritto a matita : “fall der Marta umgebung Toscanella und Monte Fiascone / am 24 April 31 / 2en fall”; in basso a sinistra manoscritto a matita  indecifrabile
Filigrana : marca “corona” di Palermo del 1783 (vedi Heawood, 1981;  Piccard, 1961)
(6/1246a) (6/1246b)  Il viaggiatore ora è diretto a Monte fiascone ed i prossimi disegni sono dedicati alla strada boscosa che congiunge i due centri abitati. Il Territorio di Montefiascone risulta frequentato e abitato sin da epoche remote: gli Etruschi la consideravano area sacra, forse sede del leggendario Fanum Voltumnae, centro politico e religioso, nel quale si riunivano i lucumoni etruschi. Le testimonianze romane sono cospicue ed in buone condizioni, legate fortemente alla consolare Cassia che fungeva da collegamento tra Roma, il centro d'Italia, il nord della Pianura Padana fino alla Francia (da qui l'appellativo "Via Francigena"). In virtù della posizione strategica della zona i Papi ed i Vescovi di Roma fecero fortificare il centro abitato nel quale confluirono dalle campagne molte persone per difendersi dalle frequenti incursioni barbariche; le mura furono dotate di un'imponente Rocca, nella seconda metà del 1200, ma, durante il Rinascimento, le esigenze militari resero necessarie molte modifiche alla struttura originale. Il foglio “a” è fisicamente legato al disegno “b” e riproduce un tratto di bosco dove il fiume Marta forma una sorta di cascatella; il tratto deciso e scuro rende la sensazione del movimento dell’acqua dato dal segno obliquo del chiaroscuro delle rocce e dagli accenni alla schiuma dell’acqua che cade. Il fiume Marta, chiamato anticamente Larthe, è l'unico emissario del lago di Bolsena; scorre nel Lazio, in provincia di Viterbo, nel territorio dei comuni di Marta, Tuscania e Tarquinia. Lungo il corso del Marta sono presenti alcune sorgenti termali e, come immissari, i torrenti Catenaccio e Traponzo. La valle formata dal Marta è stata usata, fin dalla preistoria, come importante via di comunicazione e di transumanza. Il Marta sfocia nel mar Tirreno, dopo un corso di circa 50 km, nei pressi di Tarquinia; presso la foce sorgeva, anticamente, il porto etrusco di Martanum.  Si ritrovano le note riguardanti il colore e la consistenza della roccia in special modo sul foglio “b”. (Vedi, E. PERRONE, Fiume Marta e Lago di Bolsena : Torrente Mignone ed altri minori fra il Marta ed il Tevere, Roma, 1901 )


[Fig.22]
Disegno raffigurante il sarcofago detto “ del magistrato”
Matita su carta vergellata, 310 x 212 mm
Descrizione : il foglio presenta segni di legatura in alto sul lato lungo e sul retro compare parte di un disegno del taccuino con delle fronde di alberi
Iscrizioni : in basso sotto al disegno al centro manoscritto a matita : “ … sarckophag in der … S Pietro in Toscanella 24 Apr. 31”
Filigrana : marca “corona” di  Palermo del 1783 (vedi Heawood, 1981;  Piccard, 1961)
(7/1247)La permanenza a Tuscania permette al nostro viaggiatore di scoprire reperti ertuschi, che egli ritrae come testimonia la fig. 16 di vedere le tombe etrusche della vicina Tarquinia. Il bassorilievo con scritte etrusche proviene, come egli annota diligentemente, dai dintorni della chiesa di S. Pietro di Tuscania e raffigura un corteo con una biga con tre uomini che la precedono. Si tratta della riproduzione della decorazione del sarcofago detto “del Magistrato” ora facente parte della collezione del Museo Gregoriano del Vaticano, proveniente da Tuscania e risalente al III secolo a.C. Tra il VI e il V secolo a. C., nelle città d’Etruria, come nella maggior parte dei paesi mediterranei, si assiste al passaggio dalla monarchia ad una repubblica di tipo oligarchico con cariche temporanee ed elettive. Il potere appare diviso tra i vari magistrati con l’evidente volontà di impedire che la città potesse cadere nuovamente nelle mani di un solo uomo.Tale avversione per la monarchia sembrerebbe confermata dal racconto di Tito Livio che ritiene i Veienti abbandonati a loro stessi dalle altre città d’Etruria nella fase finale della lotta contro Roma, proprio perché avevano ristabilito la monarchia per meglio fronteggiare il nemico. Probabilmente, tra il periodo regio e quello repubblicano ci dovette essere una fase di dittature militari, cui seguirono le cariche collegiali temporanee e una forma di senato gentilizio.Le città sembrano essere dominate da alcuni nobili, solo per breve tempo e sporadicamente sostituiti da magistrati. Anche i monumenti confermano questo stato di cose, soprattutto le grandi e ricche tombe di famiglia, con iscrizioni relative a membri di famiglie strettamente imparentate, molti dei quali avevano rivestito, in vita, cariche temporanee e collegiali. Le fonti romane definiscono genericamente principes i magistrati etruschi, ma per saperne qualcosa di più ci vengono in soccorso le iscrizioni funerarie in cui si cita il cursus honorum del defunto, a volte redatto in forma di un vero e proprio elogio poetico. Il nostro disegnatore dinmostra di avere consapevolezza delle ultime scoperte archeologiche e di non ritrarre casualmente ciò che il viaggio gli proponeva ma al contarrio dimostra di avere un programma ben preciso. (  vedi Katalog der Skulpturen : Vatikanische Museen, Museo Gregoriano profano ex Lateranense, Mainz am Rhein, s.d., vedi anche, F. GILOTTA, Il sarcofago del magistrato ceretano, in “Rivista dell’Istituto Nazionale di Archeologia e Storia dell’arte”, S.III, a.XII, 1989 (1990), p 69-89,

[Fig. 23]
 Veduta panoramica di Tuscania e delle mura
Matita su carta vergellata, 310 x 212 mm
Iscrizioni : in basso a sinistra manoscritto : “Città Toscanella li 24 A ”
Descrizione : il foglio presenta segni di legatura in alto sul lato lungo
Filigrana : marca “corona” di Palermo del 1783 (vedi Heawood, 1981;  Piccard, 1961)
(8/1248) Il disegno mostra una veduta molto ariosa della citta di Tuscania allora detta Toscanella . Una prima cinta muraria fu costruita in epoca etrusca, a protezione dell'originario insediamento abitativo. Nei secoli successivi, il sistema difensivo subì varie modifiche in epoche diverse, tanto da cambiare sia lo sviluppo perimetrale che l'ubicazione stessa. In epoca medievale, infatti, la città andava sviluppandosi in zone diverse da quelle del primitivo nucleo abitato, portando quindi alla necessità di proteggere l'area su cui si stava sviluppando la città durante quel periodo. Proprio durante il Medioevo, andò definendosi quello che sarebbe stato il perimetro murario definitivo a difesa del centro cittadino, lungo il cui decorso venne ulteriormente fortificato da torri di avvistamento che si elevavano oltre la vetta della cortina muraria per svolgere al meglio le funzioni difensive. La fortificazione medievale della cerchia muraria si verificò prevalentemente quando Tuscania era controllata dagli Aldobrandeschi, che lasciarono testimonianze del loro dominio nei vari centri della loro contea, ben identificabili con imponenti architetture militari. Tuttavia, le mire espansionistiche dello Stato della Chiesa verso nord, il cui confine si trovava a brevissima distanza dalla città, esponevano la stessa Tuscania e le sue strutture difensive alla possibilità di assalti. Durante il Quattrocento, furono condotti due assedi, prima dalle truppe del cardinale Vitelleschi e poi da quelle di Carlo VIII di Francia: durante questi attacchi, furono gravemente danneggiate sia le porte di accesso che le torri di guardia, oltre ad alcuni tratti della cortina muraria. In epoca post-cinquecentesca, iniziò la ricostruzione dei tratti di mura demoliti e la ristrutturazione di alcune strutture danneggiate che potevano essere recuperate. Questa lunga opera di riqualificazione della cinta muraria portò alla ridefinizione della cerchia, tranne una porzione attorno ad un colle che costituisce tuttora una soluzione di continuità del perimetro murario. Nel disegno l’andamento della città sulle colline e la sequenza delle torri e delle mura viene accuratamente delineato.  Il cielo è aperto e segnato da poche nubi al centro. Con la resa dell’elemento atmosferico il disegnatore ricostruisce anche qui la presenza del colore e dell’atmosfera del paesaggio. Alcuni cavalieri percorrono le strade che portano a Tarquinia, l’antica Corneto. A destra si scorge un’ arcata  che costituisce uno degli accessi al centro abitato (Vedi J. RASPI SERRA, o  cit., 1971, p  5-13)

[Fig. 24]
Veduta della chiesa di S. Maria a Tuscania
Matita su carta vergellata, 310 x 212 mm
Iscrizioni : in basso a sinistra manoscritto a matita : “Sta Maria in Toscanella”
Descrizione : il foglio presenta segni di legatura in alto sul lato lungo; sul verso una veduta sommaria del profilo della città di Tarquinia.
Filigrana : marca “corona” di  Palermo del 1783 (vedi Heawood, 1981;  Piccard, 1961)
(9/1249) Il prossimo foglio percorre sul verso la zona sempre intorno a Tuscania, riproducendo la facciata della chiesa di S. Maria e la torre che è posta di fronte. La facciata della chiesa è vista in parte nascosta dall’imponente torre. Nominata per la prima volta nell'852 in una bolla di papa Leone IV al vescovo di Tuscania, Urbano (si ha notizia di un vescovo a Tuscania già dal 595, quando un tale Virbono compare nell'elenco dei partecipanti ad un concilio), fu consacrata il 6 ottobre 1206. Secondo alcuni Santa Maria Maggiore sarebbe stata costruita in due riprese verso la fine del XII secolo per altri risulta antecedente a San Pietro. Studi recenti hanno ridimensionata l'importanza di Santa Maria Maggiore relegandola ad un esempio di quella ricerca che, a partire dall'VIII secolo, ha avuto luogo nell'Italia centrale, di carattere unicamente locale, di limitata validità e di modesto livello innovativo e formale. Staccata dalla chiesa, la poderosa, seppur mozza, torre campanaria di cui restano l'alto basamento e due ordini di finestre separati da lesene e file di archetti ciechi. La sua costruzione dovrebbe risalire al XII secolo anche se alcune sue caratteristiche come la struttura della base, la proporzione esagerata del corpo rispetto all'edificio chiesastico nonchè la collocazione in fronte della facciata, farebbero pensare ad una sua precedente fondazione. Un imponente rosone sulla facciata e  archetti romanici si aprono sulla facciata come i tre portali finemente decorati. Quello centrale, in marmo bianco, strombato, è fiancheggiato da due colonne scanalate a tortiglione con due leoni sovrastati da una lunetta con quattro archi sorretti da doppie colonne e con differenti capitelli. Negli stipiti sono scolpite le figure degli apostoli Pietro e Paolo, in parte ricostruite dopo un atto vandalico. Nella lunetta sono poste le figure della Madonna con Bambino Benedicente e da sinistra, Balaam sull'asina, il Sacrificio di Isacco e l'Agnus Dei, simili ad archetipi lombardi. Il portale di destra è decorato con fogliami di ispirazione classica, mentre l'arco di quello sinistro presenta un ornamento di stile normanno-siculo. Nella parte superiore si sviluppa, tra un leone e un grifo, la loggia con le sue nove colonne e dieci archetti. Infine, il ricco rosone con due ordini di dodici colonne ai cui angoli si trovano quattro sculture che richiamano gli Evangelisti (Aquila, Angelo, Leone e Vitello a rappresentare rispettivamente Giovanni, Matteo, Marco e Luca). L'abside semicircolare è percorsa da lesene e da fasce di archetti.  Il disegnatore prelude alla prossima immagine sul verso descrivendo un panorama raffigurante il profilo di Tarquinia in lontananza, attraversando la valle del Marta mentre nella parte inferiore del foglio rprende il particolare di una bifora gotica. La presenza del cavaliere sulla sinistra, sottolinea la presenza della strada che si snoda fino a Tarquinia. Alle vedute dell’antica Corneto appartiene anche il foglio n. 38/3919 (a) che però lasceremo per ultimo per la particolare immagine del verso che contiene il ritratto del presunto coautore dei taccuini. (Vedi, J. RASPI SERRA, o  cit., 1971, p 88-128)

[Fig.25]
Veduta di un paesaggio lungo la strada fra Tarquinia e Civitavecchia
Matita su carta vergellata, 310 x 212 mm
Descrizione : il foglio presenta segni di legatura in alto sul lato lungo; sul disegno compare una croce segno di esclusione
Iscrizioni : in basso a sinistra manoscritto a matita : “ … gegenuber Cornetto und Civita Vecchia 25 April 31”
Filigrana marca “corona” di Palermo del 1783 (vedi Heawood, 1981;  Piccard, 1961)
(10/3920) Il percorso prosegue con il disegno che consiste in uno schizzo in parte cancellato con una parte della Campagna che andava da Tarquinia a Civitavecchia. Il Mignone nasce dal Poggio di Coccia (m. 612 s.l.m.), vicino ai Monti Sabatini, a nord-ovest dell'antico Lago Sabatino (oggi Bracciano) dal quale prese il nome la Tribù Sabatina cui apparteneva anche la zona di Mantova e cui Virgilio deve la discendenza. Si comprende la risonanza emotiva che il nome del Mignone poteva avere nel poeta.  Scendendo verso il Mar Tirreno, il fiume passa a circa venti chilometri dalla antica Agilla-Cere (Cerveteri), poi piega a settentrione da dove aggira i Monti di Tolfa, entra nella valle che si trova fra questi monti e le colline di Tarquinia e va a sboccare nel mare a metà strada fra Tarquinia e Civitavecchia (Centumcellae). L’antica città di Cencelle sorge su una collina piatta, a 168 m di altezza, alle propaggini più settentrionali dei Monti della Tolfa. Situato nella campagna tra Allumiere e Civitavecchia il borgo appare all’orizzonte nell’aspetto più tipico delle cittadine fortificate del periodo medievale. La storia di Cencelle ha inizio nell’anno 854; nello stesso anno in cui l’abitato di Centumcellae venne definitivamente distrutto dai saraceni che ormai imperversavano su tutta la costa tirrenica. Fu così che l’antica città di Centumcellae, edificata nel II secolo d. C. nelle vicinanze del porto di Traiano, venne abbandonata dai suoi abitanti che trovarono rifugio in una città completamente nuova voluta da papa Leone IV. Questa città, costruita nell’entroterra in tempi brevissimi, fu inizialmente denominata Leopoli, in onore del suo benefattore, ma subito dopo fu rinominata Cencelle, per volere dei suoi abitanti, in ricordo della loro città natale. Nelle giornate più limpide dall’altura di Cencelle si può scorgere il mare sulla linea dell’orizzonte guardando verso Civitavecchia. Per chi proviene da Allumiere dovrà percorrere la strada asfaltata che raggiunge “La Farnesiana”. Nel disegno gli alberi sono resi velocemente e sulla sinistra vediamo una casale ed un ponte. In basso si legge “…Cornetto … Civita Vecchia 25 April 31”, probabilmente si tratta di uno schizzo  veloce, una prova. La casa sulla sinistra denota la necessità comunque di trovare un punto di riferimento del luogo oltre l’indicazione manoscritta sottostante. (Vedi L. PANI ERMINI, S. DEL LUNGO, Leopoli Cencelle, Roma, 1996-1999)

[Fig.26]
Veduta del castello Odescalchi di Santa Marinella
Matita su carta vergellata, 297 x 195 mm
Descrizione : il foglio è stato tagliato in entrambi i lati
Iscrizioni: a) in basso al centro manoscritto a matita : “Civita Vecchia”; b) a sinistra manoscritto a matita : “S. Marinella / 27 April”
Filigrana :  marca “corona” di  Palermo del 1783 (vedi Heawood, 1981;  Piccard, 1961)
(11/3917 a e b) Il seguente disegno è molto sintetico e rappresenta il profilo di S. Marinella e di Civitavecchia. Qui viene utilizzato sia il recto che il verso del foglio. Sul recto, che ritrae Civitavecchia il paesaggio si espande in una visuale larga con un gioco di linee sapiente adottato per espandere questa sensazione. L’altra veduta di comprende il castello Odescalchi di Santa Marinella visto da nord e la sagoma di un cacciatore. Sulla sinistra, lungo quella che si presume sia la via Aurelia, si erge una chiesetta ed un fabbricato rurale. Il Castello Odescalchi che, attorniato da palme e pini marittimi, domina il porticciolo turistico di Santa Marinella. La caratteristica pianta a tre torri angolari l’alta torre cilindrica centrale furono costruite probabilmente a protezione del piccolo centro abitato che ivi sorgeva intorno all’XI secolo, provvisto di un centro di culto  devoto a Santa Marina, giovane martire cristiana, che dette il nome alla località. Il Castello fu edificato nel XV secolo, inglobando l’antica torre cilindrica e reso più forte nel XVII sec. dalla costruzione dei bastioni. La torre insieme ad altre situate iln altre zone strategiche, faceva parte del dispositivo della difesa dello Stato Pontificio. (F. ENEI, Santa Marinella, S. Marinella (VT), 1996)

[Fig. 27]
Veduta di Civitavecchia da sud e della Torre Chiaruggia
Matita su carta vergellata , 310 x 207 mm
Descrizione : il foglio risulta tagliato nel lato lungo ed è disegnato sui due lati
Iscrizioni : a) in basso a sinistra manoscritto a matita : “Torre Chiaruggia”; al centro : “… [weg] …. Civitavecchia”; a destra : “ am 27 April 1831”; b) una palma con una lunga descrizione in basso parzialmente decifrata :  “Wo die Aeste runtherhaengen sind sie nackt und also …. Stellen. Der Stamm hat eine dunkelgraue Farbe. ...“( Dove i rami pendono è spoglio e così [le foglie]... sono appese. L’albero è di un colore grigio scuro)
Filigrana : marca “corona” di Palermo del 1783 (vedi Heawood, 1981;  Piccard, 1961) 12/3918 (a e b)Alcune volte in questo taccuino sono descritti i colori degli oggetti e degli elementi del paesaggio ritratto come accade in questo disegno dove viene descritta una parte di costa a sud di Civitavecchia, precisamente all’altezza della Torre Chiaruggia che viene raffigurata sulla sinistra del disegno; in fondo compare il profilo dell’abitato di Civitavecchia. Sul retro viene disegnata una palma che è un elemento particolarmente amato dai disegnatori negli schizzi di studio di questo periodo ed esprime bene l’interesse per l’esotico. La palma potrebbe anche costituire il disegno di un’altra palma detta “di Goethe” che si trovava nel giardino di villa Malta e che potrebbe essere stata descritta dal disegnatore come dotta citazione delle descrizioni goethiane sulla botanica.  In basso a destra dove appare la minuscola grafia manoscritta, viene minuziosamente narrata nei colori e nella fattura in modo da averne in un secondo tempo modo di ritrarla completamente. La linea è descrittiva e sottile; l’andamento delle foglie della palma accuratamente delineato. Si riscontra più un interesse per la chioma dell’albero che per il suo fusto. Cronologicamente con il disegno successivo arriviamo ad una data che salta di due mesi; infatti il precedente disegno riporta a destra in basso ”… 27 April 31…” mentre quello successivo è datato al 20 luglio del 1831.( vedi N. RUSCONI, La palma di Goethe, in, “Capitolium”, n.7, 1962,  471 e vedi C. CALISSE, Storia di Civitavecchia, Bologna, 1973)

[Fig.28]
Veduta di Roma con S. Isidoro, Villa Barberini a S. Nicola da Tolentino
Matita su carta vergellata, 310 x 201 mm
Descrizione :  il foglio è stato tagliato dal lato lungo
Iscrizioni : in basso a sinistra manoscritto a matita : “S.Isidoro”; al centro : “Villa Barberina … Spithoever / Rom 20 Juli 31”; a destra : “S. Nicola da Tolentino”
Filigrana : :  marca “corona” di  Palermo del 1783 (vedi Heawood, 1981;  Piccard, 1961)
13/4055 Con il siamo nuovamente a Roma. Viene dunque ripreso il taccuino e viene riprodotta una veduta di Roma. Il luogo raffigurato è la veduta del convento di S. Isidoro verso la chiesa di S. Nicola da Tolentino e la Villa detta “Barberina” poi Mandosi - Spithoever visti dalla sommità dal colle Quirinale ora non più esistente. Un tratto meno esperto è meno spavaldo descrive però minuziosamente il districarsi di tetti e alberi che si stagliano nel cielo; in fondo il profilo delle colline intorno a Roma. La scelta di S. Isidoro e questo particolare paesaggio sono indicativi della frequentazione della zona del convento degli artisti da parte del nostro disegnatore. La chiesa, con l’annesso collegio, fu fondata grazie al nobile Ottaviano Vestri di Barbiano, come appare da una bolla di Urbano VIII del 1625. La sua costruzione celebrò la canonizzazione fatta da Gregorio XV nel 1622 di cinque santi, fra i quali lo spagnolo Isidoro di Madrid che alcuni francescani spagnoli (dell’ordine dei francescani scalzi, chiamati descalceati) vollero celebrare con la costruzione della nuova chiesa che dedicarono al nuovo santo spagnolo. Dopo due anni però la chiesa e il convento passarono ai francescani irlandesi, che fuggivano dalla loro patria perché perseguitati dai protestanti inglesi, e che ancora oggi ne sono i proprietari. Costruita da Antonio Felice Casoni (1559-1634) e continuata da Domenico Castelli (1582-1657), la facciata, con portico e doppia rampa di scale, sono di Carlo Bizzaccheri (1704-1705). L’interno è un’ unica navata a croce latina con volta a botte, due cappelle laterali per lato e due cappelle ai lati del presbiterio; in essa emergono soprattutto le opere di Carlo Maratta (1625 – 1713), tra cui le storie della vita di san Giuseppe, una Immacolata Concezione; la decorazione della cupola è ottocentesca opera di Domenico Bartolini (1813-1887). All’altare maggiore spicca Sant’Isidoro e la Vergine Maria, opera di Andrea Sacchi (1599 –1661). La cappella Da Sylva fu ristrutturata su disegno di Gian Lorenzo Bernini (1598 – 1680), mentre i monumenti sepolcrali ivi presenti sono di suo figlio, Paolo Valentino Bernini. Il convento annesso alla chiesa mostra due chiostri, uno detto il piccolo chiostro progettato dal Casoni nel 1626, e l’altro chiamato chiostro di Wadding dal nome del suo autore, Luke Wadding con affreschi settecenteschi.  (G. BROCCHI, Dello stato fisico del suolo di Roma, 1820, e vedi, A. NIBBY, Roma nell’anno MDCCCXXXVIII, Roma, 1839, per la Villa Mandosi vedi : Disegni romani di Lancelot –Theodore Turpin de Crissé (1782-1859),  catalogo della mostra a cura di P. Rosazza, Roma, 2009, p.60)

[Fig.29]
Veduta del Quirinale, del Campidoglio e della colonna Traiana (recto)
Matita su carta vergellata, 310 x 200 mm
Descrizione : il foglio è stato tagliato in alto nel lato lungo
Iscrizioni : a) in basso a sinistra manoscritto a matita : “Quirinal”; in basso al centro : “Capitol / Trajan saeule”; in basso a destra : “preso in Roma”; b) in basso a sinistra manoscritto a matita : “Pozzuoli 8 sept. 31”; al centro : “Ponte caligulae”; in alto da sinistra a destra : “Capo Miseno / Ischia / spiaggia / …”
Filigrana  :  marca “corona” di  Palermo del 1783 (vedi Heawood, 1981;  Piccard, 1961)
14/4060 Il paesaggio successivo è della stessa mano e ritrae la veduta del Quirinale, del Campidoglio con la colonna Traiana  dalla stessa posizione della veduta precedente, girando di 90° verso il Quirinale. La mano è la stessa non esperta ma minuziosa. Il fulcro della veduta è la cupola di S. Maria di Loreto ed il pino. Secondo la leggenda romana, sul colle Quirinale si trovava un piccolo villaggio dei Sabini, e il re Tito Tazio vi avrebbe vissuto dopo la pace tra i Romani e i Sabini. I Sabini diedero il nome al colle da Cures, città della Sabina, e dall'altare a Quirinus, forse il dio unitario delle Curie (città sabine). Si racconta inoltre che, morto Romolo, una volta associato al dio Quirino, a lui fu edificato un tempio sul colle che da lui prese il nome: il Quirinale. Sul colle si trovavano l'antichissimo santuario di Semo Sancus (446 a.C.) e la tomba di Quirino, che Lucio Papirio Cursore trasformò in un tempio per il suo trionfo dopo la terza guerra sannitica. Molto antico era anche il Capitolium Vetus, dove il culto della Triade Capitolina (Giove, Giunone, Minerva) potrebbe essere stato celebrato qui ben prima che sul Campidoglio. Il tempio di Flora, una dea tosco-sabina, si trovava anch'esso qui. Al confine col Viminale si trovava il santuario di Diana Planciana, all'inizio del Vicus Longus. Lungo questa strada si allineavano il santuario della Pudicitia Plebeia, di Fortuna Euelpis, di Spes e di Febris. Presso la Porta Collina si trovavano altre tre templi di Fortuna (uno detto della Fortuna Primigenia, mentre al di fuori della porta erano situati il tempio di Venere Erycina (215 a.C.) e un tempio di Ercole fino al quale si sarebbe avvicinato Annibale per esaminare le fortificazioni di Roma. La veduta comprenderebbe anche parte dei mercati traianei che sono identificabili con la serie di arcatine subito sotto la torre del Quirinale. Il Quirinale, col Viminale, era anticamente detto collis per eccellenza, in contrapposizione con gli altri montes. Vi si riconoscevano alcune sommità, quali il Collis Latiaris (a sud, vicino ai Fori Imperiali), il Mucialis (o Sanqualis, dalla Porta Sanqualis in Largo Magnanapoli) e il Salutaris (dal tempio della Salus, a ovest dell'attuale palazzo del Quirinale). Il Quirinalis in senso stretto era l'estremità orientale della collina, dove si trovavano il tempio di Quirino e la porta nelle mura serviane. Le vallate laterali erano invece molto più profonde di ora e vennero colmate in varie epoche: per esempio in piazza Barberini il livello vergine del suolo si trova a 11,75 metri di profondità, mentre dal lato di via Nazionale la pavimentazione antica si trova ben 17 metri sotto terra. I dislivelli repentini delle strade trasversali (come quella antica che è stata ricavata da via delle Quattro Fontane) arrivavano anche a 25 metri con ripidi saliscendi. Il foglio riporta la data sul retro dell’8 settembre del 1831. (Vedi AA.VV. Romarcheologica, Il Quirinale, l'Esquilino, il Colle Oppio : quinto itinerario, Roma, 1999)

Veduta del ponte di Caligola a Pozzuoli (verso)
Matita su carta vergellata, 310 x 200 mm
Descrizione : il foglio è stato tagliato in alto nel lato lungo
Iscrizioni : b) in basso a sinistra manoscritto a matita : “Pozzuoli 8 sept. 31”; al centro : “Ponte caligulae”; in alto da sinistra a destra : “Capo Miseno / Ischia / spiaggia / …”
Filigrana :  marca “corona” di Palermo del 1783 (vedi Heawood, 1981;  Piccard, 1961)
Sul retro vediamo un paesaggio visto da Pozzuoli con il ponte di Caligola in primo piano. In questo taccuino sono raffigurati anche paesaggi della Campania e del napoletano soprattutto sul retro dei fogli. Questo denota un successivo utilizzo degli stessi fogli per un’altra escursione avvenuta probabilmente in tempi diversi.In questo disegno vengono descritti i luoghi del golfo di Pozzuoli quali Ischia, Capo Miseno e Procida, che vengono maggiormente curati nella definizione, del ponte di Caligola che è accennato e fa da riferimento topografico. Il molo di Pozzuoli era parte integrante delle strutture del porto, che comprendevano anche la ripa puteolana che era la banchina a protezione della zona bassa della città e i bacini al di sotto della collina del Castello. Il molo restò visibile per molti secoli, così come documentato dalle illustrazioni dei diari di viaggio e delle guide dei viaggiatori che visitarono l'area flegrea tra il XVII e il XVIII secolo. Fu probabilmente costruito in periodo augusteo, nell'ambito di una complessa azione di valorizzazione e rilancio di Puteoli e della zone flegrea nel suo complesso. Venne rinforzato più tardi sotto Adriano ed in seguito sotto Antonino Pio. Puteoli fu fondata prima di Napoli da alcuni rifugiati greci arrivati dall'isola di Samo in fuga da un regime dittatoriale ed è per questo che chiamarono la nuova città Dicearchia (la città della giustizia). Dicerachia divenne in seguito Puteoli (194 a.C.) la quale era completamente integrata con l'Impero Romano essendone il più importante porto sul mare e mettendo in comunicazione Roma con il resto del Mediterraneo. Il nome Puteoli significa piccoli pozzi per il fatto che la città si collocavca all'interno della zona flegrea caratterizzata dalla presenza di molti crateri vulcanici.
Nel 37 d.C. la città fu lo scenario di uno spettacolo singolare oraganizzato da Caligola, il quale diventato imperatore volle che fosse costruito un ponte provvisorio di barche lungo il quale egli passò a cavallo fino a raggiungere la città di Baia. Dopo il IV secolo a causa di fenomeni bradisismici le strutture del porto vennero danneggiate e poi sommerse dalle acque. Il foglio del disegno reca la data dell’8 settembre 1831.(Vedi S. G. GENTILE, Pozzuoli e la sua storia, Napoli, 1978)

[Fig.30]
Veduta di Terracina
Matita su carta vergellata, 310 x 202 mm
Descrizione : il foglio è stato tagliato sul lato lungo
Iscrizioni : in basso a destra : “Terracina 3 Oct. 31”
Filigrana : :  marca “corona” di Palermo del 1783 (vedi Heawood, 1981;  Piccard, 1961)
15/3957 Il foglio seguente raffigura una veduta di Terracina nella quale ritroviamo la palma simile a quella descritta minuziosamente nel foglio 12/3918 (b), nel contesto del caseggiato di Terracina, e fra altre piante anch’esse descritte in modo accurato. Sul retro questo foglio non ha disegni; è possibile che il percorso in questo caso si svolga da Napoli verso Roma. La veduta comprende il castello dei Frangipane e la veduta delle torri e della cattedrale di S. Cesareo scendendo giù verso il mare. Il centro storico di Terracina sorge su due modeste alture prospicienti il mare: quella più bassa fu sede dell’abitato originario, mentre su quella più elevata, il colle di San Francesco, venne insediata l’acropoli. Centro importante degli Ausoni, alla fine del VI secolo a.C. la città dovette essere già sotto l’influenza romana, come dimostrerebbe la sua menzione nel primo trattato romano-cartaginese citato da Polibio. In seguito fu occupata dai Volsci, che le mutarono il nome da “Tarracina” in “Anxur” fase testimoniata da alcuni tratti delle mura in opera poligonale visibili in più punti sotto la cinta tardo-antica. Ma furono i Romani a determinare in modo significativo l’intero assetto sociale, economico e urbano della città che ancora oggi è più che mai presente. Alcuni anni dopo, nel 312 a.C., la città venne attraversata dalla Via Appia che, unendo Roma con Capua, costituiva un fondamentale asse di penetrazione militare e commerciale verso le ricche zone meridionali della penisola. Grazie all’Appia, l’importanza di Terracina crebbe e l’originario abitato fu pertanto destinato a divenire una zona monumentale caratterizzata da dimore signorili. Dopo la ristrutturazione, alla fine del II sec. a.C., dell’area sacra dell’acropoli, si ebbe una prima trasformazione urbanistica in età sillana (primi decenni del I sec. a.C.), quando vari monumenti in “opus incertum” (tra cui il teatro) vennero realizzati contemporaneamente alla ricostruzione del grandioso santuario di Monte Sant'Angelo. Alla fine del X secolo, con la crisi del papato e lo strapotere delle famiglie locali, Terracina fu interessata dal fenomeno dell’incastellamento: pertanto, allo scopo di controllare politicamente la città e il suo territorio, forse ad opera dei Crescenzi venne avviata l’edificazione di un imponente castello, poi denominato Frangipane dalla famiglia dei nobili romani che lo occupò dal 1153 al 1202. A questa stessa fase appartiene, oltre al consolidamento di una parte del circuito murario, anche la nascita della tipica edilizia di arroccamento nel settore urbano adiacente al castello. Sul disegno sono presenti cenni atmosferici sottili che sottolineano lo sfondo con il monte Circeo  affacciato sul mare e che determinano la definizione della composizione.(Vedi A. BIANCHETTI, Storia di Terracina, 1994 e vedi R. CIGALINO, L. SILENZI, Terracina. Una torre medievale nelle mura antiche, in, “Storia della citta”, 53 (1991), p 7-14)

[Fig. 31]
Veduta della grotta Egeria e della collina retrostante (recto)
Matita su carta vergellata, 310 x 203 mm
Descrizione : il foglio è leggermente ridotto nella parte superiore
Iscrizioni : a) in basso  a sinistra : “… grotta von Egeria am 12 Oct.  mit [Koch?]”;  b)in baso sotto il capitello manoscritto a matita : “beim S. Paul”
Filigrana : :  marca “corona” di Palermo del 1783 (vedi Heawood, 1981;  Piccard, 1961)
 (16/4071) Nel successivo disegno ci troviamo nella zona sud prima di entrare a Roma. La zona della Caffarella descritta dal disegno riproduce i resti delle grotte di Egeria. La Ninfa Egeria era una delle Camene, divinita' minori legate alle sorgenti che ricambiavano offerte di acqua e latte concedendo profezie; in genere esse accompagnavano eroi o personaggi importantissimi, cosi' Egeria si lego' alle origini della stessa Roma sposando Numa Pompilio, il re sabino successore di Romolo. La leggenda narra che in questo luogo si incontravano e la ninfa qui ispirava lo sposo nel fare le leggi e curare l'ordinamento religioso della Roma primitiva. L'edificio consiste in una grande stanza rettangolare, con una nicchia centrale nel fondo e tre nicchie piu' piccole in entrambe le pareti laterali, il tutto costruito in 'Opus Mixtum' in opera reticolata e laterizio. Tale tecnica edilizia fa risalire il manufatto intorno alla meta' del II Sec. d.C. L'interno , riccamente rivestito di marmi, le pareti erano di 'Verde antico', un marmo pregiato proveniente dalla Tessaglia, mentre il pavimento era di 'Serpentino', un porfido d'intenso colore verde proveniente dalla Grecia (Una zona limitrofa a Sparta). Le nicchie erano rivestite in marmo bianco ed infine, tra esse e la volta, vi era una fascia decorata con mosaici. L'ambiente centrale e' coperto con una volta 'a botte', sulla quale aderiva uno strato di pietra pomice allo scopo di far attecchire il Capelvenere (un particolare tipo di felce). Lo schizzo è veloce e delimita la zona collinare sulla destra e la zona boschiva intorno alle grotte vere e proprie, le nuvole sono accennate ma presenti, e c’è un accenno ad altri edifici antichi nelle vicinanze. (Vedi F. COARELLI, Roma, Bari-Roma, 1995 e vedi L. SPERA, Il paesaggio suburbano di Roma dall’antichità al Medioevo …,Roma, 1999)

Capitello di S. Paolo fuori le Mura (verso)
Matita su carta vergellata, 310 x 203 mm
Descrizione : il foglio è leggermente ridotto nella parte superiore
Iscrizioni : b) in basso sotto il capitello manoscritto a matita : “beim S. Paul”
Filigrana : :  marca “corona” Palermo del 1783 (vedi Heawood, 1981;  Piccard, 1961)
Sul retro (b) troviamo la riproduzione di un capitello che dalla indicazione manoscritta sappiamo provenire dalla basilica di S. Paolo. Esso appena reso da un sottile segno della matita sembra rivelare delle volute in alto.

[Fig. 32]
Veduta del panorama di fronte alla fonte di Egeria
Matita su carta vergellata, 296 x 204 mm
Descrizione : il foglio è sensibilmente ridotto nel lato lungo
Iscrizioni : in alto a destra manoscritto a china : “Veduta panoramica dal fonte d’Egeria / 1831”; in basso a sinistra manoscritto a matita : “Rom von … der Egeria / am 12 Oct. mit J. … [Koch?]”
Filigrana : :  marca “corona” di  Palermo del 1783 (vedi Heawood, 1981;  Piccard, 1961)
17/4072 Il disegnatore deve essersi soffermato in questa zona per riprodurre molte vedute; il foglio datato 12 ottobre dove viene annotato “ Rom … der Egeria am 12 oct mit … “. Notiamo qui una delle poche annotazioni dove è maggiormente chiara la grafia del nome ancora non identificato. In questo appare una veduta delle mura aureliane nella parte sud che erano allora delimitanti ancora la zona urbana dalla campagna, nella quale appare il profilo della zona urbana dove si distinguono la basilica di S. Giovanni in Laterano, la basilica di S. Paolo e la chiesa di S. Stefano Rotondo. All’estrema sinistra del foglio la cupola di S. Pietro che determina il confine della veduta eccezionalmente larga. In primo piano al centro a sinistra le spoglie del sepolcro di Geta trasformato in casale. In basso è accennata una figura umana, un viandante su una stradina di campagna. La zona della fonte Egeria è menzionata nelle pagine della più rappresentativa letteratura romantica di quegli anni, come un luogo di speciale ispirazione e commemorazione dell’antico. Goethe nel suo “Italienische Reise”, non resiste all’attrazione magnetica delle grotte d’Egeria; partendo da Hawthorne, Hans Christian Andersen fino ad arrivare a Lord Byron, molti subiscono il fascino di questo luogo. (Vedi L. SPERA, Il paesaggio suburbano di Roma dall’antichità al Medioevo …,Roma, 1999)

[Fig.33]
Veduta di un ponte,  di un tempio  e di un casolare nei dintorni della fonte di  Egeria
Matita su carta vergellata, 302 x 203 mm
Descrizione : il foglio è leggermente ridotto sul lato lungo
Iscrizioni :  in alto a destra manoscritto a china : “pressi del Fonte Egeria / 1831”; in basso a sinistra manoscritto a matita : “Im …. Der N. Egeria / Vicino Bosco Sacro / am 12 Oct. 31 mit J. [Koch] “
Filigrana  :  marca “corona” di  Palermo del 1783 (vedi Heawood, 1981;  Piccard, 1961)
 (18/4070) Il seguente disegno ritrae nuovamente questa parte della zona dell’Appia Antica dove viene indicato “bosco sacro” e dove si vede ritratto il tempio dell’attuale chiesa di S. Urbano. In questo caso forse il panorama non è del tutto fedele all’originale. La valle della Caffarella dove sono situati questi monumenti deve il suo nome alla famiglia Caffarelli che entrò in possesso della zona alla metà del XVI secolo facendone una tenuta agricola. Essa è attraversata da vari corsi d’acqua fra i quali il maggiore è il fiume Almone, ritenuto sacro perché legato alle origini mitiche di Roma. Almone è infatti il primo eroe italico che nell’Eneide cade nella guerra fra aborigeni e Troiani. Questa valle fu in età Repubblicana densamente occupata da ville suburbane, tempietti e sepolcri, da essere chiamata poi in età medievale “Vallis marmorea” per l’abbondanza dei monumenti antichi che vi erano presenti. Qui troviamo fra gli altri il tempio del Dio Redicolo o sepolcro di Annia Regilla moglie di Erode Attico che morta nel 161 d.C. fu sepolta invece in Grecia. Già Carlo Labruzzi aveva ritratto il tempietto con l’aggiunta di un casale e di una torre che troviamo anche in questo disegno. Compare al centro un ponticello che fa da fulcro centrale per il dispiegarsi del disegno. I particolari naturalistici sono importanti e contestualizza l’immagine con l’aggiunta di un casale sulla destra. La data riportata risale al “12 oct. 31” e di seguito compare come già accennato una scritta che recita “mit J. …” . Questa sorta di firma inizia a comparire in questi fogli come se l’autore fosse accompagnato solo in alcune delle sue escursioni. (Vedi C. LABRUZZI, G. LUGLI, Via Appia, Roma, 1967)

[Fig.34]
Veduta di una Taverna nei pressi di S. Paolo fuori le mura
Matita su carta vergellata, 295 x 210 mm
Descrizione : il foglio è leggermente ridotto sia  sul lato lungo che su quello corto
Iscrizioni :  in alto a destra manoscritto a china : “Nei pressi di S. Paolo / 1831”; in basso a destra manoscritto a matita : “… beim S. Paolo 16 Oct. 31”
Filigrana  :  marca “corona” di Palermo del 1783 (vedi Heawood, 1981;  Piccard, 1961)
 (19/4061) Nel foglio seguente viene descritto un piccolo borgo vicino alla basilica di S. Paolo, molto particolare con un grande albero al centro su cui viene concentrata l’attenzione e che rappresenta il fulcro della composizione, mentre sul retro si dipana il casolare con una grande scalinata ed un fontanile con botte e carrucola sulla destra. Sempre a destra si scorge il campanile di una chiesaal di là di un muro. Tornando al centro dell’immagine, vengono descritti dei personaggi attorno ad un tavolo intenti a suonare e cantare. Fa pensare che questo luogo fosse un’osteria di campagna come tante ne esistevano allora nei dintorni di Roma al di fuori delle mura Aureliane. Datato non a caso 16 ottobre 1831 il disegno si riferisce al periodo in cui si svolgevano a Roma le cosidette “ottobrate romane” o “Vignate” che  avevano luogo con una gita in carrozza  verso le  osterie della campagna romana,  presso le quali ci si recava soprattutto durante la settimana, in special modo il giovedì,  perché la domenica doveva essere dedicata al Signore. Nel disegno si nota un gruppo dseduto ad un tavolo con un personaggio che suona uno strumento a corde. I commensali sono due donne e un uomo. La campagna romana era costellata di questi casolari che facevano da luoghi di sosta e di ristoro per i viaggiatori. La letteratura folkloristica romana ci regala diverse testimonianze delle “ottobrate” romane in poesie ispirate a questa usanza che faceva parte di quella esplorazione attuata dai viaggiatori stranieri verso le abitudini degli autoctoni e l’ambiente dell’osteria aveva radici così antiche (le tabernae) a rappresentare una sorta di luogo dell’antichità sopravvissuto  allo scorrere del tempo. (Vedi L. DE SANTIS, F. DEL CANUTO, Le osterie romane : storia, costume e curiosità delle antiche taverne cittadine, Roma, 1997, e vedi,  L. BARROERO, VIII. La naturale nobiltà e bellezza del popolo romano”, in, Maestà di Roma, Venezia, 2003, p  207-209)

[Fig. 35]
Veduta di uno scorcio della via delle Sette Chiese che conduceva da S. Sebastiano alla basilica di S. Paolo fuori le mura
Matita su carta vergellata, 279 x 212 mm
Descrizione : il foglio è leggermente ridotto sia  sul lato lungo che su quello corto
Iscrizioni :  in basso a destra manoscritto a matita : “beim S. Sebastiano …nach S. Paul / 16 Oct. 31 “
Filigrana : :  marca “corona” di  Palermo del 1783 (vedi Heawood, 1981;  Piccard, 1961)
(20/4065) Il successivo disegno mostra la strada che da Porta S. Sebastiano conduce alla basilica di  S. Paolo fuori le mura, dove vengono descritti sommariamente un uomo a cavallo ed uno a piedi; in fondo si distigue la Tomba di Cecilia Metella e la cosidetta Tenuta di Roma Vecchia di cui parleremo più avanti. La strada si dipana tagliando una collina comprendendo sulla sinistra una piccola chiesa rurale. Il disegno sommario e veloce è particolareggiato nel delineare l’andatura delle collinette e dei piani. Anche questo reca la data del 16 ottobre 1831 e ad una più attenta analisi si tratta della via delle Sette Chiese che ritrasse anche Flachéron in un suo disegno. La via trae il nome dal pellegrinaggio che sovente si faceva alle sette maggiori basiliche romane (S. Pietro, S. Paolo, S. Giovanni in Laterano, S. Sebastiano, S. Croce in Gerusalemme, S. Lorenzo fuori le mura) e promosso per la prima volta da S. Filippo Neri sul finire del XVI secolo. La visita alle Sette Chiese si svolgeva solitamente di giovedì grasso, coprendo il percorso che andava da S. Paolo a S.Sebastiano, ricalcando un antico tracciato romano. Questa via susburbana collegava alcuni poderi e le vigne dei Colli di S. Paolo con le tenute più vaste dell’agro dell’Appia antica. La via si estendeva per gran parte delle zone di interesse archeologico degli scavi del tempo , comprendendo la via Ardeatina, la via Appia, parte della via Ostiense ed attraversando una parte notevole della campagna romana. Il disegno mostra una veduta con una ripida salita che lascia vedere un panorama dove si scorgono la tomba di Cecilia Metella ed altri edifici  della via Appia. (Cfr. F. NOACK, Die Roemische Campagna,Rom, 1910;  174, tav.215, vedi, M. G. GUARRERA (curatore), Via delle Sette Chiese : un percorso storico, archeologico, paesistico, Roma,1992)

[Fig.36]
 Veduta della tenuta di Romavecchia (recto)
Matita su carta vergellata, 287 x 210 mm
Descrizione : il foglio è leggermente ridotto sia  sul lato lungo che su quello corto; sul retro si trova lo schizzo di una crocifissione
Iscrizioni :  in alto a destra manoscritto a china : “Roma vecchia 1831”;  in basso a destra manoscritto a matita : “im Roma vecchia / mit [Koch] 20 Oct. / 31 “
Filigrana :  marca “corona” di  Palermo del 1783 (vedi Heawood, 1981;  Piccard, 1961)
(21/4077) Il disegno seguente  del 20 ottobre ritrae la già mensionata tenuta della “Roma Vecchia”, un castello costituito da quello che rimaneva dell’immensa villa della famiglia dei Quintili. Il rudere che vediamo sulla estrema destra del foglio riproduce fedelmente quello che oggi vediamo dalla via Appia che era solo parte di una enormetenuta con vari edifici che si estendeva tra il IV ed il VI miglio dell’Appia Antica fra le vie Latina e Tuscolana.. Il Castello, che fu costruito in epoca medievale e divenne di proprietà degli Astalli, si ergeva come vediamo su un pascolo pianeggiante e che in seguito divenne di proprietà di Giovanni Torlonia. Fu nel 1830 che Alessandro Torlonia fece effettuare degli scavi nella tenuta di Roma Vecchia che diedero alla luce  numerose statue e sculture fra le quali un gruppo di Sileni, una ninfa seduta e fra queste numerosi sarcofagi che poi entreranno a far parte della collezione dei principi. Era dunque un luogo molto interessante alla luce dele nuove  scoperte archeologiche cui è probabile fosse a conoscenza il nostro disegnatore.
.Il disegno è molto ben delineato e l’effetto atmosferico è quello di una luce piena. In lontananza si vedono altri ruderi, ma l’attenzione è focalizzata sulla parte centrale e sinistra della composizione. Da notare che sul retro compare uno schizzo di una crocifissione. (vedi , R. FRONTONI, La via Appia, la villa dei Quintili, Roma, 2000, e vedi, G. TOMASSETTI, La Campagna Romana, Roma, 1975-1977, Vol.IV, p  97-109)

Crocifissione (verso)
Matita su carta vergellata, 287 x 210 mm
Descrizione : il foglio è leggermente ridotto sia  sul lato lungo che su quello corto;
Filigrana :  marca “corona” Palermo del 1783 (vedi Heawood, 1981;  Piccard, 1961)
Il crocifisso è appena accennato con brevi e veloci segni. Non è possibile risalire a quale fosse il soggetto vero e proprio. Purtroppo gli indizi sono miseri e non consentono il riconoscimento del crocefisso.

[Fig.37]
Veduta del tempio del Dio Redicolo nella valle d’Egeria
Matita su carta vergellata, 297 x 210 mm
Descrizione : il foglio è leggermente ridotto sia  sul lato lungo che su quello corto; Iscrizioni : in basso a sinistra manoscritto a matita : “Tempio di Dio redicolo / i valle d’Egeria li 20 Otobr “; in basso  a sinistra : “ mit [Koch]”
Filigrana : :  marca “corona” di Palermo del 1783 (vedi Heawood, 1981;  Piccard, 1961)
 (22/4066) Nel disegno datato sempre 20 ottobre torniamo nella valle del fiume Almone che compare in basso con un affluente, presso la fonte Egeria come ci informa la nota manoscritta in basso a sinistra. Compare un altro ponticello, e gli alberi quasi spogli lasciano intravedere il tempio del dio Redicolo o sepolcro di Annia Regilla e il casale contenente una “Valca”, sorta di mulino ad acqua destinato alla lavorazione della lana e dei tessuti ma saltuariamente anche  per la macinazione del grano. Il tempio in realtà è una tomba romana a colombario, probabilmente appartenente a un collegio funerario; esiste anche una tradizione che parla del sepolcro di Annia Regilla. L’edificio si presenta comunque come un sepolcro a tempietto a due piani, in laterizio, coperto da un tetto a doppio spiovente che si regge su una volta a crociera; al piano superiore, illuminato dalle finestre rettangolari, avevano luogo i riti funebri, mentre nel piano inferiore, che prende luce dalle piccole finestre a feritoia, era allestita la camera funeraria. L’ingresso è sul lato verso il fiume Almone; lí una gradinata conduce al piano superiore, formando davanti alla porta un podio largo tre metri. Questa tomba, costruita interamente in mattoni, è giustamente famosa per la raffinatezza delle sue decorazioni; il discreto stato di conservazione si deve ai contadini che, nei secoli, la riutilizzarono come fienile garantendo così un minimo di manutenzione. All’interno il pavimento che separava i due piani è però crollato.I ponti che si ergono sul fiume Almone nella valle della Caffarella sono tre e sono in parte sormontanti la cosidetta “Marrana della Caffarella”, un ruscello che passando per la tenuta di Romavecchia scorre parallelo, si distacca e ricongiunge all’Almone in due punti.  Oltre questo c’è un altro piccolo affluente che viene alimentato dalla fonte Egeria e che corrisponde a questa biforcazione descritta dal disegno. L’andamento dei fili d’erba e il loro movimento risulta importante nella resa atmosferica di nuovo molto evidente dell’immagine. In basso a sinistra due pescatori con le reti appena sbozzati. Il disegno è di notevole qualità e nella parte inferiore del fiume di sinistra si nota una piccola indicazione “sand” ovvero sabbia. L’indicazione del colore eventuale da dare a quella riva che conteneva una piccola spiaggetta di fiume. In basso a destra notiamo di nuovo la dicitura “mit …” con il nome a seguire nella citazione.(Vedi L. SPERA, Il paesaggio suburbano di Roma dall’antichità al Medioevo …,Roma, 1999)

[Fig.38]
Veduta del boschetto nei pressi della fonte di Egeria
Matita su carta vergellata, 296 x 210 mm
Descrizione : il foglio risulta ridotto nel lato corto del foglio
Iscrizioni  : in alto a destra manoscritto a china : “di contro al Fonte d’Egeria / 1831”; in basso a destra manoscritto a matita : “im quelle der Egeria / beim Tepel der Dio / Redicolo mit [Koch] am / 20 Oct. 1831”
Filigrana :  marca “corona” di  Palermo del 1783 (vedi Heawood, 1981;  Piccard, 1961)
 (23/4069) Il disegno è sommariamente condotto rispetto al precedente tuttavia riprende alcune caratteristiche delle fronde degli alberi e si sofferma sull’atmosfera e sul dato aereo del paesaggio.  Riproduce ancora un panorama del bosco vicino alla fonte Egeria e della veduta in lontananza della Porta S. Sebastiano con le mura Aureliane. “Vi era un bosco irrigato nel mezzo da una fonte d'acqua perenne che sgorgava da un'ombrosa grotta.
 E poiché Numa assai spesso vi si recava senza testimoni come per incontrarsi con la dea,  consacrò quel bosco alle Camene poiché ivi esse si ritrovavano con Egeria sua sposa".  Così Livio descrive il luogo dove fiorì una delle più poetiche leggende di Roma Antica, dove le ombre del bosco e la voce dell'acqua evocavano segreti di culti e riti sacri.  Numa Pompilio vi si recava di notte, trascorrendo lunghe ore nella grotta del bosco a colloquio con Egeria, ispiratrice e guida nella politica religiosa, che egli aveva instaurato per distogliere il popolo dalla guerra, dell'uso delle armi, per frenarne la violenza degli istinti e ingentilirne i costumi, suscitare il desiderio della pace e di benessere conquistati con il rispetto verso i popoli confinanti, con il lavoro,  la disciplina e la virtù. In questa leggenda rivive la visione della valle e del Santuario silvestre delle Camene, ninfe delle fonti, dentificate con le "Muse Vaticinatrici" dei Greci; rivive soprattutto l'immagine di una di loro: Egeria,  la bella ninfa dotata delle più alte facoltà dello spirito, esperta delle cose umane e dei misteri divini. Nei miti a lei legati appare come un'antichissima divinità latina protettrice delle nascite. Considerata anche come déa delle acque sorgive perché per ispirare e consigliare Numa nella creazione delle sue istituzioni religiose avrebbe praticato riti divinatori servendosi dell'acqua che sgorgava dalla grotta. Per questo i Romani considerarono sacra la fonte delle Camene e ne fecero oggetto di culto. Inoltre, secondo quanto riferisce Frontino (circa 40-104 d.C.), si riteneva che anche questa sorgente come quella dell'Apollinaire e quella di Giuturna, avesse il potere di sanare gli uomini dalle loro infermità. Il tempo non disperse il ricordo delle immagini suscitate da questa favola antica finché nel XVIII secolo si arrivò a riconoscere il bosco descritto da Livio in un suggestivo boschetto nei pressi di via della Caffarella  e dell'Appia Antica. Le nuvole  son ben delineate nonostante la sintesi del disegno; sulla sinistra un pastore pascola delle pecore. Appare nuovamente una nota in basso a destra “Im … die Egeria beim Tempel der Dio ridicolo – mit … 20 oct 1831”. (Vedi, T. LIVIO, Storia di Roma, Bologna, 1963, vol. I, e vedi, R. CLEMENTI, Il Ninfeo di Erode Attico detto grotta della Ninfa Egeria e la valle della Caffarella, in, “L’Universo”, annoLX, N.6, novembre-dicembre 1980, p 991-1008)

[Fig.39]
 Veduta dei dintorni della fonte Egeria con una scena di caccia
Matita su carta vergellata, 296 x 210 mm
Descrizione : il foglio risulta ridotto nel lato corto e su quello lungo del foglio
Iscrizioni  : in alto a destra manoscritto a china : “nei pressi della Fonte d’Egeria / 1831”; in basso a sinistra manoscritto a matita : “im quelle der Egeria  /am  23 Oct. 1831”
Filigrana :  marca “corona” di Palermo del 1783 (vedi Heawood, 1981;  Piccard, 1961)
 (24/4068) Nella seguente veduta viene descritta una capanna in un bosco, dietro la quale si nasconde un cacciatore con tanto di fucile intento nell’osservazione di un gruppo di anatre che nuotano nell’Almone. In alto a destra ed a sinistra si vedono in lontananza il mausoleo di Cecilia Metella, e una torre diroccata. La zona della Caffarella appartenne nel XI secolo ai conti Tuscolani, passando in seguito alla famiglia del Giudice, ai Savelli e dal XIII secolo ai Caetani e in questo lasso di tempo non vide mai modificato il suo aspetto agricolo. La bonifica fu effettuata per opera dei Caffarelli che ne entrarono in possesso e successivamente fu posseduta dai Rospigliosi (1547) e dai Torlonia i quali furono prodighi nel completarne l’impianto di irrigazione. L’attenzione è rivolta in questo caso,  più che ai monumenti, alla scena pastorale dando il rilievo alla capanna nascosta dai cespugli. Notevole la tecnica che adotta il disegnatore per rendere le parti più luminose e quelle più in ombra definendo i particolari per le zone d’ombra mentre rende sommario il segno sulle parti più in luce. Questo disegno  è datato in basso a sinistra 23 ottobre 1831. (Vedi, L. SPERA, Il paesaggio suburbano di Roma dall’antichità al Medioevo …,Roma, 1999)

[Fig.40]
Veduta della fonte d’Egeria
Matita su carta vergellata, 295 x 210 mm
Descrizione : il foglio risulta ridotto nel lato corto e su quello lungo
Iscrizioni  : in alto a destra manoscritto a china : “ Fonte d’Egeria / 1831”; in basso a destra manoscritto a matita : “Fontana  Egeria  / 23 Oct. 1831 mit [Koch]”
Filigrana : marca “corona” di Palermo del 1783 (vedi Heawood, 1981;  Piccard, 1961)
 (25/4067) Lo stesso giorno viene eseguito il prossimo disegno che raffigura i resti della fonte della ninfa Egeria con le arcatine della mostra d’acqua, contemplate da un pastore di spalle in primo piano accompagnato dal suo cane. In alto vediamo il campanile della chiesa di S. Urbano che si erge dalla collina retrostante. Il segno veloce si sofferma poco e delinea l’andamento ondulatorio dei rami degli alberelli che sono intorno al ninfeo. L'edificio consiste in una grande stanza rettangolare, con una nicchia centrale nel fondo e tre nicchie piu' piccole in entrambe le pareti laterali; tale tecnica edilizia permette la datazione del manufatto intorno alla meta' del II sec. d.C. L'interno era riccamente rivestito di marmi: le pareti erano  rivestite in marmo bianco ed infine, tra esse e la volta, vi era una fascia decorata con mosaici. L'ambiente centrale coperto da una volta a botteda luogo ad una nicchia di fondo, dove vi e' la statua coricata del dio Almone e dove tutt'oggi e' visibile il segno lasciato da un'altra statua oggi scomparsa sgorgava l'acqua della fontana. Essa e' captata da una sorgente acidula sotto Via Appia Pignatelli e condotta fin qui da un acquedotto sotterraneo. L'acqua era incanalata in tubature di terracotta che, scendendo lungo le pareti, formava giochi d'acqua nelle nicchie laterali che contenevano altre statue. Il condotto che alimentava il Ninfeo di Egeria ( II Sec. d.C.) situato all'interno del Parco della Caffarella in Roma, smise di espletare la sua funzione, intorno alla fine del 1500, dopo circa quindici secoli d'incessante attivita'. Fu probabilmente per determinare le cause dell'evento che, nel 1816 il Fea apri' il varco tutt'oggi visibile. La speranza d'individuare la causa nelle sue immediate vicinanze, in considerazione anche del fatto che, in questo punto, il condotto si produce in due strette semicurve, risulto' vana. Sulla sinistra si vede una cascatella  ed in primo piano il pastore che fa da perno centrale della composizione. Evidentemente il disegnatore vuole che il pastore o viandante siano al centro della composizione a sottolineare la propria presenza in quel luogo, una sorta di autoritratto. Non è da escludere che questo pastore in primo piano rappresenti una citazione da qualche altra opera. (Vedi, F. COARELLI, Roma, Bari-Roma, 1995, - e vedi L. SPERA, Il paesaggio suburbano di Roma dall’antichità al Medioevo …, Roma, 1999)

[Fig.41]
Veduta della tomba di Cecilia Metella
Matita su carta vergellata, 295 x 210 mm
Descrizione : il foglio risulta ridotto nel lato corto e su quello lungo
Iscrizioni  : in alto a destra manoscritto a china : “ Tomba di Cecilia Metella / e dintorni - 1831”; in basso a sinistra manoscritto a matita : “Cecilia Metella  / am 23 Oct. 31 mit [Koch]”
Filigrana : marca “corona” di Palermo del 1783 (vedi Heawood, 1981;  Piccard, 1961)
 (26/4066) Ritrae la veduta dei casali ed in fondo il mausoleo di Cecilia Metella ancora in parte legato alle mura del castello dei Caetani che aveva inglobato il monumento. Siamo ancora al 23 ottobre e si prosegue nell’itinerario seguendo le rive del fiume Almone. In questo spaccato di paesaggio vediamo una serie di costruzioni scomparse fra le quali molte torri medievali dirute. Un'iscrizione posta nel mausoleo recita che qui riposa Cecilia Metella, figlia di Quinto Cecilio Metello Cretico (conquistatore di Creta nel 67 a.C.) e moglie di Crasso. Il sepolcro, che doveva concludersi con un tumulo di terra o con una copertura in muratura a forma di cono, si deve datare all'inizio dell'età augustea. L'interno era una camera unica rivestita di laterizi (uno dei più antichi esempi conosciuti di tale tecnica) e coperta da un'alta volta conica. Nell'XI secolo il sepolcro venne utilizzato come torrione di un castello di proprietà dei Conti di Tuscolo, ai quali subentrarono nel 1299 i Caetani. Questi occuparono la tomba e la incorporarono in un vero e proprio borgo fortificato denominato Castrum Caetani (la merlatura della tomba, visibile anche nella foto a sinistra, risale proprio a questo periodo), da cui i Caetani controllavano il traffico sulla strada, riscuotendo esose gabelle. Nel XIV secolo la fortezza passò ai Savelli e poi agli Orsini che la tennero fino al 1435, dopodichè divenne proprietà del Senato Romano. Per ironia della sorte, la struttura corse i più gravi pericoli proprio in tempo di pace: papa Urbano VIII (1623-44) dette al Bernini un permesso scritto per demolire "...un monumento antico, di forma rotonda, di circonferenza grandissima e di bellissimo marmo presso S.Sebastiano, detto Capo di Bove...", vale a dire la tomba di Cecilia Metella, per terminare i lavori di fontana di Trevi. Ma il popolo romano protestò talmente tanto che il Bernini dovette abbandonare il progetto. Nel Cinquecento il complesso fu abbandonato e Sisto V lo fece in parte demolire, perché ritenuto covo di banditi. Sulla sinistra un grande casale e sulla destra in basso in primo piano due carri di fieno trainati da buoi descritti in modo molto veloce. In questo caso nella scena domina il paesaggio monumentale e non la scena pastorale in primo piano. Gli alberelli mossi dal vento sono disseminati per tutta la veduta; le nuvole sono basse. Anche qui il dato atmosferico è importante e caratterizza la composizione. (Vedi C. DE STEFANIS, Via Appia, il mausoleo di Cecilia Metella ed il Castrum Caetani, Milano, 2000)

[Fig.42]
Veduta della via Appia  e del Bosco Sacro (recto)
Matita su carta vergellata, 296 x 210 mm
Descrizione : il foglio risulta ridotto nel lato corto e su quello lungo, sul retro appare una veduta della campagna romana
Iscrizioni  : in alto a destra manoscritto a china : “ Via Appia – Il Bosco Sacro / 1831”; in basso a destra manoscritto a matita : “Im … der Bosco Sacro  / 23 Oct. “
Filigrana : marca “corona” di Palermo del 1783 (vedi Heawood, 1981;  Piccard, 1961)
 (27/4073) La camminata prosegue quel giorno con il disegno dove sul fronte retro vengono descritte sommariamente due veduta delle colline lungo la strada e il Bosco Sacro. Il culto dei boschi sacri è presente in varie zone dell’Europa ad essi i romani diedero il nome di “Luci” (Lucus), delimitando una parte dei boschi dedicata al culto e dove ci si radunava per compiere i riti religiosi. In questi luoghi vene nel tempo affiancata una costruzione che inizialmente era costituita da una aedicola e che poi divenne un tempio. Quasi tutti i templi posti al di fuori come all’interno dell’ urbe avevano un bosco sacro che spesso con l’avanzare della urbanizzazione divenne un piccolo agglomerato di pochi alberi. Quello che ora è raèppresentato potrebbe essere il Lucus Camenarum situato nelle vicinanze del Lucus Egeriae, il bosco dove si svolgevano i colloqui della ninfa. Tornando alla nostra descrizione il cavaliere seguito dal cane si trova nella parte sinistra della composizione e in alto il profilo della basilica di S. Giovanni. Sul retro appare un viottolo di campagna con un uomo che guida a piedi un asino da soma molto carico; in fondo un paesaggio lascia intravedere alcune rovine di difficile identificazione. A questo punto la passeggiata sui interrompe, vediamo nella sequenza delle date una interruzione.(Vedi, G. STARA TEDDE, I boschi sacri dell’antica Roma, in, “Bullettino della Commissione Archeologica comunale”, a.XXXIII, 1905, p 189-232)

Veduta della campagna romana (verso)
Matita su carta vergellata, 296 x 210 mm
Descrizione : il foglio risulta ridotto nel lato corto e su quello lungo, sul retro appare una veduta della campagna romana
Iscrizioni  : in alto a destra manoscritto a china : “ Via Appia – Il Bosco Sacro / 1831”; in basso a destra manoscritto a matita : “Im … der Bosco Sacro  / 23 Oct. “
Filigrana : marca “corona” di Palermo del 1783 (vedi Heawood, 1981;  Piccard, 1961)
27/4073bLa veduta ritrae una parte della campagna romana presumibilmente della zona su descritta, con l’accenno ad un portale di accesso ad una tenuta che spesso si trovano ai lati delle direttive principali suburbane. In mezzo vediamo un agricoltore che dierige un somaro carico di fieno per il viottolo di campagna che appare in fondo inserirsi in una vallata e che è percorso in parte da una staccionata.

[Fig. 43]
Veduta di Tor di Quinto (recto)
Matita su carta vergellata, 290 x 207 mm
Descrizione : il foglio risulta ridotto nel lato corto e su quello lungo, sul retro appare una veduta della campagna romana
Iscrizioni :  in basso a destra manoscritto a matita : “ … Tor di / Quinto 27 Oct. “
Filigrana : marca “corona” di Palermo del 1783 (vedi Heawood, 1981;  Piccard, 1961)
(28/4059°) Il presente foglio si sviluppa in fronte retro e decrive una veduta della zona di Tor di Quinto, un pascolo solcato da un ruscello affluente del Tevere. Il nome deriva sicuramente dalla sua ubicazione al V° miglio della via Flaminia antica, a partire dalle mura serviane e più precisamente dalla Porta Ratumena (oggi Porta del Popolo), a somiglianza di altri luoghi dell’Appia e dell’Ardeatina che prendevano il nome dalla loro distanza da Roma. Sull’origine del nome non sono mancate altre più fantasiose spiegazioni.Per alcuni il nome deriverebbe dai fondi “Ad Prata Quintia” del celebre condottiero romano Tito Quinto Cincinnato, che qui si ritirò con la moglie Racilia per riposarsi dalle fatiche sostenute al servizio della Repubblica di Roma: a Quinto lo raggiunsero poi gli ambasciatori per annunciare che il popolo romano lo aveva eletto dittatore contro i Sanniti. Per altri studiosi il nome deriverebbe dal sepolcro di “Quinto Nasonio”.Nei pressi della collinetta occupata oggi dalla torre già dal VI secolo risulta una chiesa dedicata a S. Leucio, martire di Brindisi, con annesso un monastero.Nel secolo VIII il primicerio Mastalo donò al papa Sdraino I (772-795) i suoi fondi posti al “quinto” miglio della Flaminia, assieme alla chiesa di S. Leucio: a quei fondi furono annessi altri fondi contigui donati allo stesso pontefice dal secondicerio Gregorio e papa Adriano I ne formò una immensa colonia agricola, chiamata “Domusculta” di S. Leucio, dopo aver restaurato la chiesa che era in abbandono.Le notizie della Domusculta” fanno difetto fino ad un secolo dopo la sua fondazione: infatti il 21 ettembre 885 gli ambasciatori dell’imperatore Ludovico II, come antipapa del neoeletto pontefice Benedetto III, venuti a Roma per giudicare l’elezione del nuovo papa, si incontrarono proprio nella “basilica” di S. Leucio con i messi e gli inviati di Benedetto III, che assalirono e imprigionarono. Il giorno dopo gli ambasciatori di Ludovico II convocarono in quella basilica il popolo di Roma e, mentre il popolo si recava al convegno, ne approfittarono per entrare con uomini armati nella Città Leonina e occuparono il Vaticano, facendo prigioniero Benedetto III: ma dopo poche ore il popolo romano, sdegnato, riuscì a liberare il pontefice ed a scacciare dalla città il cardinale Anastasio. (Vedi, A. DE SANCTIS, Ricerca stroica sull’area di Tor di Quinto, Roma, 1987)

Veduta della campagna sulla via Cassia vicino all’Acqua Traversa (verso)
Matita su carta vergellata, 290 x 207 mm
Descrizione : il foglio risulta ridotto nel lato corto e su quello lungo,
Iscrizioni :  manoscritto a matita in basso a destra : “… via Cassia / vicina Acqua Tra / versa 27 oct. 31”
Filigrana : marca “corona” di Palermo del 1783 (vedi Heawood, 1981;  Piccard, 1961)
(28/4059b)Il nostro viaggiatore si è recato dunque nella zona nord di Roma dove inizia la sua nuova escursione; nel disegno a fronte si nota in alto a sinistra un casale turrito e due grandi covoni di grano a suggellare  mentre sul retro ci addentriamo nella via Cassia in zona “Acqua Traversa” come fedelmente ci informa lo stesso autore, in una nota in basso a destra. La veduta è di carattere pastorale; a destra una mandria viene guidata da un contadino mentre, un altro, lo osserva appoggiato ad una staccionata. In basso si nota il letto del corso d’acqua dove era localizzata la villa suburbana di Lucio Vero. Dalle colline della Insugherata e di Monte Arsiccio nasce l’antico Amnis Tutia. Il corso d’acqua divide a metà un possedimento che proprio per questo è stato denominato “Acqua Traversa”: di qui lo stesso nome dato anche alla strada. La località ha i seguenti precedenti storici assai importanti. Marco Aurelio e Lucio Vero vi avevano costruito come si era detto, delle sontuose ville ubicate sulla collina che domina la valle del fosso di Acquatraversa ed é costeggiata dalla via Cassia e da via Cassia Vecchia,  poi magnificata nelle fonti antiche dal suo biografo Giulio Capitolino nella Historia Augusta (Verus, pag. 8 e segg.). La sontuosa residenza, che fu teatro delle sregolatezze di questo imperatore, era ubicata al V° miglio della via Clodia, il cui tracciato seguiva il fosso dell’Acquatraversa sulla sua sponda sinistra.Il complesso doveva disporsi scenograficamente su terrazze: possono suggerirne l’effetto alcuni disegni del 1547 di Antoine Morillon (Morillonio), conservati a Eton College presso Windsor : sopra i resti della villa di Lucio Vero è stata poi purtroppo costruita villa Manzoni. Del complesso monumentale si sono poi perse nei secoli successivi le tracce più o meno fino a quando nel 1923 il topografo della Regia Soprintendenza ai Musei e agli Scavi della Provincia di Roma, Edoardo Gatti, ha operato una serie di rilievi relativi ad un muraglione della villa romana che avrebbero dovuto essere successivamente allegati ad una relazione da pubblicare in “Notizie degli Scavi” del 1924: ma stranamente tale relazione non ha mai visto la luce. Il primo studio vero e proprio del monumento di epoca romana, con raccolta della bibliografia precedente, é stato un breve articolo di Giuseppe Lugli sempre del 1923: i resti a quell’epoca ancora visibili erano un muro di sostruzione con prospetto a nicchioni verso la via Clodia, una cisterna a due navate, una cisterna adiacente a cunicoli ed una vasca, oltre ad alcune masse murarie di volte crollate nell’angolo nord-orientale. A dicembre di quello stesso anno é stata presentata la domanda di rilascio di licenza edilizia per un progetto di villa residenziale redatto dall’arch. Armando Brasini (1879-1965) cui si era rivolto il committente, il conte Gaetano Manzoni, nipote di Alessandro Manzoni, l’autore dei “Promessi Sposi”: benché il progetto sia sicuramente del Brasini, nella domanda al Comune compariva soltanto il nome di Guido Beretta, ingegnere specializzato nella costruzione di villini, che probabilmente ha poi seguito i lavori.Qui si sono forse accampate le truppe di Annibale: se questa notizia è dubbia, certissima è invece la sosta delle soldatesche di Carlo VIII, lanciate alla conquista del regno di Napoli nel 1494. L’ interesse dell’artista denota dunque oltre quello per il paesaggio anche quello per la storia antica e le sue memorie archeologiche.(Vedi,  Emergenze storico-archeologiche di un settore del suburbio di Roma: la Tenuta dell’Acqua Traversa,  Atti della giornata di studio a cura di F.VISTOLI, Roma 7 giugno 2003, Roma, 2005, e vedi, I .CAPITOLINUS, Vita Veri, in,   Historia Augusta, Roma, 2007)

[Fig. 44]
Veduta del Castello di Tor Crescenza sulla via Flaminia
Matita su carta vergellata, 297x 206 mm
Descrizione : il foglio risulta ridotto nel lato corto e su quello lungo; sul retro è accenato un altro schizzo della veduta di Tor Crescenza.
Iscrizioni: in basso a destra manoscritto a matita : “ Fabrica Poussiniana / 27 Oct. … “
Filigrana : marca “corona” di Palermo del 1783 (vedi Heawood, 1981;  Piccard, 1961)
 (29/1252) La veduta che ora ci appare rappresenta il castello di Tor Crescenza, costruito nel 1400 dalla famiglia romana dei Crescenzi. Il castello si erge su una collina alta 50 metri circa sul livello del mare e posta a 1.500 metri dal Km. 8 della via Flaminia, a sinistra uscendo da Roma: lo si raggiunge da via dei Due Ponti, imboccando via del casale della Crescenza. Esso rappresentò una fonte di ispirazione per molti artisti dal Seicento all’Ottocento. Il disegno si estende oltre che sulla veduta del castello anche sulla distesa della valle che pende il nome di “Valle della Crescenza”. In basso a destra appare una denominazione particolare data a questa costruziona dal disegnatore quale “Fabrica Poussiniana”. La spiegazione di questa strana denominazione viene determinata soprattutto da due incisioni del Bourgeois dove viene chiamato “Fabrique du Poussin” e da Eugenio Landesio che lo ritrae nel 1833 denominandolo “Casale del poussino” secondo una tradizione diffusa che lo attribuiva al famoso pittore perché sembra che passasse diverso tempo in questa vallata ritraendone i paesaggi e  per questo anch’essa venne denominata “Valle del Pussino”. Dai documenti d’archivio risulta che la valle attraversata dal fosso del Fontaniletto è appartenuta alla famiglia Crescenzi ininterrottamente dagli inizi del 1400 fino al 1813. Alla morte di Giacomo Crescenzi, avvenuta il 18 marzo 1413, la tenuta “Torre de’ Crescenzi” è spettata al figlio Francesco. Nel 1464 “Stephanus Francisci de Crescentiis de R. Colunde” figura nell’elenco di 162 possidenti e mercanti di campagna. Il 7 settembre 1477 Stefano Francesco fa testamento: l’11 settembre successivo vi aggiunge un “codicillo” che con la clausola del fedecommesso obbliga gli eredi Mariano e Pierpaolo a mantenere indivisa la proprietà della Crescenza fra i soli figli maschi legittimi. Il fedecommesso si protrarrà fino all’ultimo erede maschio dei Crescenzi, Virgilio, morto nel 1761, lasciando la proprietà all’unica figlia, Violante, sposa di Marcantonio Bonelli: la Crescenza, passata poi al figlio di questi ultimi, il Duca Don Pio Bonelli, è stata venduta il 1 luglio 1813all’antiquario e banchiere Andrea Giorgi. Il 1 febbraio 1826 i figli di Andrea Giorgi, Carlo e Gaetano, vendono la Crescenza al Principe di Piombino, Don Luigi Boncompagni. Il 16 agosto 1896 la famiglia Boncompagni Ludovisi ha venduto per 211,00 lire la Crescenza al tenore Francesco Marconi che l’ha poi rivenduta al Marchese Raffaele Cappelli.Anche il retro del foglio, disegnato sommariamente, ritrae la vallata della Crescenza. (Vedi G. MESSINEO-A. CARBONARA , Via Flaminia, Roma, 1993,   19 ; E. BENTIVOGLIO , La Crescenza,  in, “Studi Romani”, XXV, I, 1977,   68  ; I. BELLI BARSALI ,Ville di Roma, ilano, 1970,   370)
[Fig.45]
Veduta dell’ansa del Tevere a Tor di Quinto e contadino con buoi e aratro
Matita su carta vergellata, 291 x 198 mm
Descrizione : il foglio risulta ridotto nel lato corto e su quello lungo
Iscrizioni :  in alto a destra manoscritto a china : “Torre di Quinto”; in basso a destra manoscritto a matita : “ der Tiber …/ Torre di  quinto / 27 Oct. 31 mit [Koch?] … “
Filigrana : marca “corona” di Palermo del 1783 (vedi Heawood, 1981;  Piccard, 1961)
 (30/4058)  Il disegno ritrae un’ altra veduta della zona di Tor di Quinto con le due anse del Tevere sulla piana verso i prati in primo piano sono ben delineati alcuni contadini con i buoi ed il paesaggio si estende per tutto il foglio con la linea d’orizzonte che arriva al monte Tuscolo. Il tratto è veloce, ma insiste, come già ci  è accaduto di vedere, sul contorno dei buoi in primo piano. L’atmosfera  tersa è gia ampiamente definita nel disegno. In basso a destra la nota e la datazione al 27 ottobre 1831.

[Fig.46]
Veduta del castello della Crescenza con pastore musicante
Matita su carta vergellata, 296 x 210 mm
Descrizione : il foglio risulta ridotto nel lato corto e su quello lungo; il foglio è disegnato in entrambi i lati
Iscrizioni :  in basso a destra manoscritto a matita : “ vicina la grescenza  / 30 Oct 31 mit [Koch?]“; sul retro manoscritto a matita al centro : “Tiber fl”
Filigrana : marca “corona” di Palermo del 1783 (vedi Heawood, 1981;  Piccard, 1961)
 (31/1251) La veduta del castello di Tor Crescenza viene esaminata da un’altra angolazione e si dipana in questo disegno la struttura delle due torri, servendosi di una visuale più ravvicinata e ponendo nel mezzo della veduta un’immagine pastorale che vuole comunque rievocare le vedute poussiniane già mensionate. Viene delineato in modo sapiente sia l’andamento del terreno che il dispiegarsi degli alberi nella vallata. Il cielo risulta sempre terso e ritorna una certa cura del segno e del movimento delle frondeche contrastano con il castello che si erge su un’altura all’orizzonte. Sul retro troviamo una veduta dell’ansa del Tevere con un rudere medievale sulla sinistra in un paesaggio molto ampio che compende all’orizzonte, sulla destra anche la veduta del monte Soratte.

[Fig.47]
Veduta  del colle Aventino dalle pendici del Celio
Matita su carta vergellata, 291 x 202 mm
Descrizione : il foglio risulta ridotto nel lato corto e su quello lungo
Iscrizioni :  in alto a destra manoscritto a china : “L’Aventino – (visto dal Celio); in basso a sinistra manoscritto a matita : “ der Monte Aventino / und Monte Celio …  / am 1 Nov 31“; sopra la scritta ora citata manoscritto a matita viola :“Torre Frangipane“
Filigrana : marca “corona” di Palermo del 1783 (vedi Heawood, 1981;  Piccard, 1961)
(32/4062) Il seguente foglio viene disegnato in novembre e ci troviamo ai piedi del monte Aventino, nel sito dove è ora l’attuale circo Massimo, quando ancora era sepolto e la zona era adibita all’agricoltura. Vediamo in primo piano due figure appena definite sedute su un tronco, posto lungo una strada che scende nella valle. Si scorge sulla sinistra in basso la torre dei Frangipane e il alto le basiliche dell’Aventino quali S. Sabina, Sant’Alessio, Santa Prisca, San Saba e Santa Balbina. La dicitura in basso a sinistra descrive : “der Monte Aventino von Monte Celio …, 1 nov 31”. Al centro campeggia un piccolo boschetto che su un crinale costeggia la strada che si inserisce fra due collinette a destra. Il tratto è preciso e i monumenti sono annerito come se il disegnatore volesse sottolineare che la veduta era controluce, indicazione forse per un trasferimento su tela. Questa parte del taccuino è interessante come documento storico; descrive minuziosamente la situazione della zona prima degli scavi degli anni ’30 che portarono alla luce il circo Massimo. In questa valle scorreva un piccolo rivo che sfociava nel Tevere detto “Acqua Mariana” e che correva per tutta la lunghezza dell’attuale Circo Massimo.  (Vedi Guide Rionali di Roma – Rione XII – Ripa, a cura di D. GALLAVOTTI CAVALLERO, Roma,1977; p 108-110)

[Fig.48]
Veduta della basilica di S. Balbina
Matita su carta vergellata, 295 x 206 mm
Descrizione : il foglio risulta ridotto nel lato corto e su quello lungo
Iscrizioni :  in alto a destra manoscritto a china : “S. Balbina  / 1831”; in basso a sinistra manoscritto a matita : “ S. Balbina in / Rom am 6 Nov  mit [Koch?] …“
Fligrana : marca “corona” di Palermo del 1783 (vedi Heawood, 1981;  Piccard, 1961)
(33/4063) A testimoniare questa presenza il disegno successivo datato al 6 novembre, che riproduce ancora la valle sotto all’Aventino, precisamente sotto la  basilica di S. Balbina e dove appare una stradina dall’andamento sinuoso che sulla sinistra scavalca un fiumicello ed il relativo ponte. In basso vediamo scorrere questo ruscello e più in alto un cavaliere con un’asta da mandriano. Sulla strada percorsa dal mandriano si incontra qualche mendicante o pellegrino, e qualche piccolo sacrario di campagna; sono descritti minuziosamente le fronde dei prati incolti e gli alberi; la resa dei piani è data ancora una volta dal segno più o meno sottile del disegno. Dedicata alla vergine e martire del II secolo, è situata nella piazza omonima, su un'altura lungo viale G.Baccelli. L'edificio sorge sulla casa del console e praefectus urbis Lucio Fabio Cilone, a lui donata dall'imperiale amico Settimio Severo e i resti della quale, in opera mista, si possono ancora vedere nel giardino dell'Ospizio di S.Margherita annesso alla chiesa. Il primo documento ufficiale fa risalire la fondazione della chiesa al 595, anche se un edificio di culto doveva già esistere verso la fine del V secolo. Il primo intervento di restauro avvenne alla fine dell'VIII secolo ad opera di papa Leone III, che ne rifece il tetto. La storia del complesso è strettamente legata alle invasioni barbariche che afflissero Roma durante il Medioevo, quando l'intera zona dell'Aventino si tramutò in campagna deserta per le continue scorribande degli eserciti stranieri. Per questo motivo sorse, ad opera di monaci greci, il convento di S.Balbina, un edificio fortificato da torri e merlature, ancora oggi visibili nel giardino della chiesa, come la mozza torre in laterizio visibile nella foto a sinistra. Nonostante ciò, lo stato di semiabbandono in cui versava il monastero impose numerosi restauri tra il XV ed il XVI secolo, come quello commissionato nel 1449 dal cardinale Marco Barbo, nipote di Paolo II, che fece ricostruire interamente il tetto, lasciandone memoria in un'iscrizione sopra una delle travi di sostegno del soffitto (nella foto sotto, la prima trave visibile in alto). Abbandonata nuovamente ai primi del Seicento a causa della malaria che imperversava nella zona, fu oggetto di numerosi saccheggi che la privarono di Nel proseguire nella sua escursione il nostro viaggiatore si dirige verso la via Appia, che partiva in corrispondenza della attuale via delle Terme di Caracalla, dov’era l’antica Porta Capena. (Vedi, C. FERRERI, Il complesso di S. Balbina a Roma, in “Alma Roma”, n.1, 1996, p 27-66)

[Fig.49]
Veduta della via Appia vicino alla chiesa di S. Balbina
Matita su carta vergellata, 296 x 207 mm
Descrizione : il foglio risulta ridotto nel lato corto e su quello lungo
Iscrizioni :  in alto a destra manoscritto a china : “Via Appia – vicino / alla chiesa di S. Balbina”; in basso a sinistra manoscritto a matita : “ am der Via Appia vicina / S. Balbina am 7 Nov  mit [Koch?] …“
Fligrana : marca “corona” di Palermo del 1783 (vedi Heawood, 1981;  Piccard, 1961)
 (34/4064) Il disegno decrive un altro tratto della via Appia, sotto la chiesa di S. Balbina. A Santa Balbina, martire sotto Adriano (117-135), oltre il titolo della basilica, era dedicato un cimitero tra la via Ardeatina e l’Appia, forse poco lontano da quello di Callisto. Dei santi Felicissimo (ma più probabilmente Felicissima) e degli altri tre non vi sono notizie storiche. Il Posterla (1707) riporta: Balbina, Quirino (suo padre) e altri 5 martiri. Nella composizione appare a destra un casale turrito e a sinistra la chiesa. In bella mostra un albero che fa da perno alla composizione; in basso si percepisce un ruscello e la vegetazione che generalmente lambisce le rive dei ruscelli;  la cura per i particolari che il disegnatore vi applica arriva a descrivere alcuni alberi sottili foglia per foglia. Il disegnatore descrive minuziosamente questo gruppo di disegni tradendo un particolare interesse per il soggetto. Il luogo intorno all’Aventino e le vie consolari romane, erano importanti da ritrarre per gli artisti epici per inserire i soggetti delle loro opere in un contesto di rievocazione storica autentica. In questo disegno compaiono alcune figure al centro e sulla destra del foglio; un somaro con il suo padrone che lo dirige con un ramo ed alcune figure appena accenate al centro.(Vedi G. SICARI, Reliquie insigni e “corpi santi” a Roma, Roma, 1998)

[Fig.50]
Veduta della Basilica dei SS. Pietro e Paolo e di S. Gregorio Magno
Matita su carta vergellata, 301 x 195 mm
Descrizione : il foglio risulta ridotto nel lato corto e su quello lungo e molto rovinato; presenta macchie sul recto e sul verso un restauro pesante
Iscrizioni :  in basso a sinistra manoscritto a matita : “S. Giovanni e Paolo / 7 Nov  mit [Koch?]“
Fligrana : marca “corona” di Palermo del 1783 (vedi Heawood, 1981;  Piccard, 1961)
 (36/4075) Il seguente foglio appare molto rovinato dall’umidità e da alcune lesioni restaurate grossolanamente sul retro. Raffigura la Basilica dei SS. Pietro e Paolo e sul lato destro viene brevemente descritta la facciata della chiesa di S. Gregorio Magno. La veduta comprende gran parte delle chiese del monte Celio sarebbe stato precedentemente alla costruzione di esse detto Mons Querquetulanus (cioè "monte delle querce"), mentre soltanto in seguito si sarebbe imposto il nome attuale, dovuto tradizionalmente a Caele (Caelius) Vibenna, uno dei due fratelli di Vulci, con l'aiuto dei quali, secondo una tradizione etrusca, Servio Tullio, il sesto re di Roma, sarebbe riuscito ad occupare prima il Celio e poi Roma. Sempre in epoca romana, il colle era diviso in tre parti: il Coelius (dove attualmente si trova la basilica dei Ss.Giovanni e Paolo), il Coeliolus (la propaggine del colle dove si trova la chiesa dei Ss.Quattro Coronati) e la Succusa (ubicata fra Coelius e Coeliolus), che insieme formavano il Coelimontium. La Basilica dei Ss.Giovanni e Paolo sorge nell'omonima piazza sul pendio occidentale del Celio ed è dedicata ai due ufficiali romani Giovanni e Paolo, ferventi cristiani e vittime della persecuzione dell'imperatore Giuliano l'Apostata che nel 362 d.C. li fece uccidere e seppellire nella loro stessa casa. Gli scavi sotto la chiesa hanno effettivamente evidenziato due case romane risalenti all'inizio del II secolo: la prima era costituita su due livelli, con un edificio termale al piano inferiore e un cortile-ninfeo nel quale si conserva tuttora un elegante affresco del III secolo raffigurante Proserpina con alcune divinità marine. L'altra casa, adiacente al Clivus Scauri, già alla fine del II secolo assunse l'aspetto di un'insula, ossia un'abitazione con portico e botteghe al pianterreno e appartamenti ai piani superiori, almeno due, come si può dedurre dalle due file di finestre che si affacciano sul Clivus Scauri. Nel III secolo le due abitazioni si unificarono, probabilmente sotto un unico proprietario, assumendo così l'aspetto di una grande domus. Il luogo divenne così meta di pellegrinaggio e venerato come luogo sacro tanto che nel 398 il senatore Bisante e suo figlio Pammachio vi edificarono un titulus (noto con il nome di Byzantis o anche di Pammachii), all'interno del quale una finestrella, situata in una piccola stanza (confessio) con pareti affrescate, consentiva ai fedeli di affacciarsi su una specie di pozzo e contemplare così le reliquie dei santi. Soltanto agli inizi del V secolo venne costruita la basilica, che poggiava sugli edifici preesistenti. La basilica non ebbe vita facile: saccheggiata e distrutta dai Visigoti nel 410, colpita da un terremoto nel 442, saccheggiata e nuovamente distrutta dai Normanni nel 1084, fu sempre restaurata fino alla totale ricostruzione del XII secolo per volere del cardinale titolare Teobaldo. Anche il portico ionico, sorretto da otto colonne con capitelli ionici, risale al XII secolo (costruito in sostituzione dell'antico nartece), così come l'abside e il campanile, che furono completati dal cardinale Giovanni dei Conti di Sutri e da Adriano IV. Nel 1216 i lavori effettuati dal cardinale Cencio Savelli (Onorio III) portarono alla sopraelevazione del portico ed alla creazione della galleria soprastante e del bellissimo portale cosmatesco. A destra della chiesa si trova il convento degli inizi del XII secolo, situato, come la base dello splendido campanile romanico sulle fondazioni del grandioso Tempio di Claudio. Il campanile venne eretto in due fasi: nella prima metà del XII secolo i primi due piani e nella seconda metà del XIII secolo gli ultimi cinque, in occasione della quale la superficie in laterizio del campanile fu decorata con dischi di porfido e serpentino e piatti di carattere moresco-bizantino. In primo piano un pozzo con relativa vasca lavatoio in cui immerge le mani una figurina. Il soggetto fa da cornice allo sfondo della basilica che si erge sulla collina. La scritta posta in basso a sinistra riporta la data al 7 novembre del 1831.( Vedi A.. PRANDI,  SS. Giovanni e Paolo, Roma, e vedi, AA.VV., Le case romane del Celio, Roma, 2002, numero monografico di “Forma urbis”)

[Fig.51]
Veduta di S. Stefano Rotondo
Matita su carta vergellata, 295 x 205 mm
Descrizione : il foglio risulta ridotto nel lato corto e su quello lungo
Iscrizioni :  in alto a destra manoscritto a china : “S. Stefano Rotondo  / 1831”; in basso a sinistra manoscritto a matita : “ S.Steffano rotonda / am 9 Nov  mit [Koch?]“
Fligrana : : marca “corona” di Palermo del 1783 (vedi Heawood, 1981;  Piccard, 1961
(35/4074) Il disegno che cronologicamente segue questo ritrae la chiesa di S. Stefano Rotondo, e le mura aureliane. S.Stefano Rotondo, una delle prime chiese cristiane, fu eretta ai tempi di papa Simplicio, tra il 468 e il 483. Ha un'insolita pianta circolare (come si può notare nella foto sopra), con quattro cappelle che fuoriescono formando una croce. Originariamente era costituita da un ambiente rotondo circoscritto da due portici concentrici ed il portico esterno era intersecato dai bracci della croce greca; fu Innocenzo II, nel XII secolo, ad aggiungervi il portico d'ingresso (nella foto a sinistra) e le grandiose arcate trasversali interne. Il tamburo al centro è alto 22 metri e largo altrettanto e prende luce da 22 alte finestre, alcune restaurate e altre murate durante il papato di Niccolò V, nel 1453, su consiglio dell'architetto fiorentino Leon Battista Alberti. Nel XVI secolo le pareti della chiesa vennero affrescate da Niccolò Pomarancio, con scene raccapriccianti del martirio di innumerevoli santi. All'interno si conserva la cosiddetta "sedia di Gregorio Magno", una cattedra in marmo dalla quale si dice che il grande papa pronunciasse le sue omelie. Nelle cappelle sono conservati anche alcuni decori medioevali: nella prima cappella a sinistra dell'entrata c'è un mosaico del VII secolo raffigurante Cristo con S.Primo e S.Feliciano. Sulla destra si ergono alcuni ruderi con alte arcate di costruzioni romane non più esistenti ed al centro il tamburo della chiesa. In basso a sinistra si ergono quasi a contrapporsi al rudere, due covoni di grano e in primo piano due frati che con cappelli a larghe falde si occupano della raccolta nell’orto. L’inquadratura in primo piano è spesso dedicata ai lavori dei campi quasi a sottolineare la progressione fra la  campagna e la città. Il segno sottolinea i contorni dei monumenti e degli elementi del paesaggio. L’alberello esile sulla destra mosso dal vento conferisce ariosità alla composizione.(Vedi, H. BRANDENBURG, Die Kirche S. Stefano Rotondo in Rom, Berlin-New York, 1998, e vedi, C.CESCHI, S. Stefano Rotondo, Roma, 1983 , in, “Atti della Pontificia Accademia Romana di Archeologia”, S.III, MEMORIE, vol. XV)

[Fig.52]
Veduta della basilica di S. Giovanni in Laterano e di S. Croce in Gerusalemme
Matita su carta vergellata, 295 x 205 mm
Descrizione : il foglio risulta ridotto nel lato corto e su quello lungo; sul retro uno schizzo riproducente un angioletto
Iscrizioni :  in basso da sinistra manoscritto a matita : “Rom 12 Nov  31 / S. Giovanni in Laterano / S. Croce in Gerusalemme“
Fligrana : marca “corona” di Palermo del 1783 (vedi Heawood, 1981;  Piccard, 1961
(37/4076) Nell’ultimo disegno datato al 12 novembre del 1831 vediamo un segno molto preciso e descrittivo. Una serie di linee d’orizzonte che si susseguono e che danno luogo alla veduta della Basilica di S. Giovanni in Laterano ed in lontananza di S. Croce in Gerusalemme.  In primo piano due contadini con le vanghe in spalla che si avviano verso un acquedotto in basso. La veduta è dall’alto verso il basso. La descrizione delle mura aureliane è notevole ed il susseguirsi degli edifici che fanno parte del complesso della Basilica lateranense è nettamente distinguibile; si vedono l’obelisco e il battistero e il susseguirsi delle vallette che portano alla città.La veduta privilegiata è comunque quella di chi viene dalla Caffarella , vista la posizione opposta alla facciata della basilica di S. Giovanni e dunque dalle terme di caracalla. L'alimentazione delle terme ere assicurata tramite un ramo speciale dell'Acqua Marcia, l'Aqua Antoniniana, appositamente costruita nel 212 e potenziata con l'aggiunta di una nuova sorgente. L'Aqua Marcia fu condotta a Roma dal pretore Quinto Marcio Re nel 144 a.C. e proviene dall'alta valle dell'Aniene, ma, diversamente dall'Anio Vetus, non attingeva dal fiume ma da sorgenti abbondanti e di ottima qualità situate nei pressi di Marano Equo, tra Àrsoli ed Agosta, dove ancora oggi attinge l'odierno Acquedotto della Marcia. Il ramo più famoso fu quello costruito nel 212-13 da Antonino Caracalla per alimentare le sue Terme: questo ramo, opportunamente potenziato con l'aggiunta di una nuova sorgente, detta Fons novus Antoninianus proveniente da Àrsoli, prese il nome di Aqua Antoniniana e si staccava dall'acquedotto principale nei pressi del III miglio della via Latina, nella zona odierna di Porta Furba.. I primi scavi "documentati" di questa zona iniziarono nel 1912, altri ne seguirono.Nel disegno una serie di acquedotti e ruderi costellano la campagna vicina all’urbe nei pressi delle mura aureliane.  La veduta risulta molto suggestiva e in alto, le linee delle nuvole e gli alberelli mossi dal vento, inseriscono questa descrizione minuta in un contesto meno rigido e cristallino.(Vedi L. LOMBARDI, A. CORAZZA, Le terma di Caracalla, Roma, 1995)

[Fig.53]
Ritratto di gentiluomo
Matita su carta vergellata, 310 x 190 mm
Descrizione : il foglio risulta ridotto sul lato lungo; sul retro un ritratto maschile
Iscrizioni :  in basso da sinistra manoscritto a matita : “In Corneto 22”
Fligrana :  marca “corona” di Palermo del 1783 (vedi Heawood, 1981;  Piccard, 1961
(38/3919) Il foglio è disegnato in entrambe le parti ed è stato posto per ultimo perchè totalmente privo di datazione. Costituisce tuttavia un giro di boa per la nostra indagine in quanto costituisce un ritorno all’itinerario iniziale. Nel verso del foglio compare una delle torri che si ergono nella città di Tarquinia con un veloce disegno privo di ombre e solo leggermente contornato; in basso la scritta “In Corneto” identifica la zona. Sul retro compare il ritratto di un uomo, molto ben descritto anche nei connotati psicologici, con una grafia sapiente e minuziosa, che si sofferma principalmente sulla descrizione dei tratti del viso e meno nell’abbigliamento dello stesso. E’ ipotizzabile che sia uno dei due compagni di viaggio che abbiamo ipotizzato e che, come di consueto fra gli artisti, avessero stigmatizzato questa loro esperienza comune con un ritratto reciproco.(Vedi B. CINELLI, Il ritratto dell’artista, in, Maestà di Roma, Venezia, 2003, p  295-317)



Appendice documentaria











































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 Indice dei nomi e dei luoghi


Abbazia di S. Nilo 22
Accademia di Francia  7,9
Adriano 24
Agresti, Livio (1505 – 1579) 26
Albano 23,24
Alberti, Durante (1538 - 1613) 26
Alessandro VI Borgia (1431-1503) 25
Alfonso I d’Este (1476 – 1534) 25
Allumiere 38,39
Almone 17
Alsium 29
Amalasunta 28
Anfiteatro di Sutri 26
Angermuseum di Erfurt 15
Anguillara 30,39
Annibale 42
Arnolfo di Cambio (1240 – 1302) 27
Ascanio 23
Assisi 15
Bagni di Diana 23
Basilica di S. Costanza 20,21
Basilica dei SS. Cosma e Damiano 28
Bartholdy, Jacob Salomon 9
Bentvogels 21
Bernini, Gian Lorenzo (1598 – 1680) 41
Bernini, Paolo Valentino 41
Bevignate da Perugia 27
Biblioteca del Foro della Pace 28
Biondo Flavio 25
Bizzaccheri, Carlo (1704-1705) 19,40
Bonaparte, Napoleone  6
Borgia 25
Borgia, Lucrezia (1509 - 1572)
Bracciano 38
Caffarella 12,15
Caffè Greco 10
Campidoglio 13,41
Canina, Luigi( 1795 – 1856)  7
Capizucchi 23
Cappella dei Cavalieri di Malta (Sutri) 27
Cappella Da Sylva 41
Carlo VIII di Francia (1470 – 1498) 33,36
Carlo Magno (742-814) 17,31
Casa di Goethe (Roma)15
Casino Massimo 9
Casoni, Antonio (1559-1634) 19, 41
Castel Gandolfo 23,24
Castelli, Domenico (1582-1657) 19,41
Castelli Romani 19,22
Castello Odescalchi 30,39
Castelluccio 34
Castrum Novum 29
Cavalieri di Malta 27
Celani, Giuseppe 8
Chiesa dei Cappuccini 19
Civitavecchia 5,30,38,39,40
Clemente XI  21
Colli Albani 22
Collis Latiaris 42
Collis Mucialis o Sanqualis 42
Collis Salutaris 42
Colonna Traiana 41
Comarca di Roma 5
Compagnia di Gesù  7
Compagnia di Ponte Molle 10
Confraternita di S. Luca 9
Consalvi, Ercole  7
Consoni, Francesco  4
Convento di S. Isidoro 9,19,40
Cornelius, Peter (1783-1867) 9,14
Corporale del Miracolo di Bolsena 27
Cosa 29
Costantino il grande 20
Costantinopoli 16
Cures 41
Deutscher  Kuenstlerverein 10
Die Ponte Molle Gesellschaft 10
Diana 24
Emanuele da Como (Frate) 19
Enea 23
Etruria 29,35
Eugenio III 21
Fanum Voltumnae 34
Felice IV (526-530) 28
Fiume Marta 34,35,38
Fonte della Ninfa Egeria 16
Fori Imperiali 42
Foro Romano 7,28
Friedrich, Caspar Friedrich (1772-1829) 11
Fries, Ernst (1801-1833) 12
Gaio Aurelio Cotta (124 a.C. circa – 73 a.C.) 29
Gaio Mario (157 a.C. – 86 a.C.) 22
Galvani, Alberto (1560 ca.) 25
Gandolfi 23
Germanische Nationalmuseum di Nuernberg 15,16
Giulio III 25
Goethe (von), Johann Wolfgang  7,9,16
Goethe (von), Ottilia 16
Gogol, Nikolaj Vasil'evič  7
Grafen von Reisach , Carl August (cardinale) 17
Grecia 14
Gregorio I dei Conti di Tuscolo 22
Gregorio XV Ludovisi (1554 –1623) 40
Gregorio XVI Cappellari  (1831-1846)  7
Grottaferrata 22
Guattani, Giuseppe Antonio (1748-1830) 10,13
Hackert, Jacob Philipp (1737-1807) 9
Hannover 19
Historisches Archivs der Stadt Koeln 16
Hopfgarten, Ferdinand (1807-1896) 12
Hottinger, Konrad (1788-1828) 9
Humboldt (von), Wilhelm(1767-1835) 8,10
Ippolito II d'Este 25
Isidoro da Madrid 19
Kaiser Dalmatika 16
Kissling, Leopold 14
Koch, Elena 14
Koch, Joseph Anton (1768-1839) 9,12,13,14,15,16,17
Kunsthalle di Amburgo 11
Kunsthalle di Kiel 16
Lago di Bolsena 35
Lanciani, Rodolfo (1845 – 1929) 28
Langer, Peter 14
Largo Magnanapoli 42
Larthe (fiume Marta) 35
Leone III (675-741) 17,59
Leone XII (1823-1829)  7
Lucio Papirio Cursore (340-309 a.C) 41
Ludwig I di Baviera 9,14,15
Lukasbund 9
Maitani, Lorenzo (1275 – 1330) 27
Maranum 23
Marino 22,23,24
Massimiliano II di Baviera 14
Mausoleo di Cecilia Metella 12
Mignone 38
Molitor, Wilhelm 17
Mommsen, Theodor (1817-1903) 10
Monte Cavo 21
Monte Guadagnolo 23
Montefiascone 34
Monti di Tolfa 38
Murnau 16
Museo Gregoriano 35
Museo Nazionale di Tarquinia 32
Museo del Prado (Madrid) 25
Muziano, Girolamo (1532-1592) 26
Nazareni 9,14
Nebbia, Cesare (1536 – 1614) 26
Nerly, Friedrich (1807-1878) 12
Nibby, Antonio (1792 – 1839) 25
Niccolò IV Masci (1227 – 1292) 27
Ninfeo Dorico 23
Olevano Romano 9,15
Orsini 9,30,39,52
Ospedale di S. Spirito in Sassia 30,39
Orvieto16, 26,27,28
Overbeck, Friedrich (1789-1869) 8,9
Palazzo Barberini 19
Palazzo Mancini  7
Palazzo Simonetti 10
Palazzo Zuccari 9
Patrimonio di S. Pietro 5
Perugia 15
Peschiera 34
Pforr, Franz (1788-1812) 8,9
Pian di Mola 34
Piazza Barberini 19, 42
Pio II Piccolomini (1405 –1464) 22,25
Pio VII Chiaramonti(1800-1823)  6,7
Pirro Ligorio (1510 – 1583) 25
Poggio di Coccia 38
Ponte di largo impero 29
Ponte Molle Gesellschaft (die)10
Ponte Milvio 10
Porta Collina 41
Porto Leonino  7
Preller, Friedrich il vecchio (1804-1878) 12
Punicum 30,39
Pyrgi 29
Quarandotti, Domenica 33
Quirinale 6,41,42
Quirinus 41
Ranaldi, Cassandra 14
Reinhart, Johann Christian (1761-1847) 15
Rocca di Papa 21,22
Ruhmor (von), Karl Friedrich (1785 -1843)  7
S. Balbina 16
S. Felice in Pincis 8
S. Giuseppe sulla via Nomentana 20
S. Maria di Loreto 41
S. Maria Maggiore 25,37
S. Maria del Riposo 31
S. Maria della Rosa 31
S. Maria del Tempio (Sutri) 27
S. Maria a Tuscania 37
S. Nicola da Tolentino 19,40
S. Pietro a Tuscania 17,30,31,33
Sacchi, Andrea (1599 –1661) 41
San Nilo da Rossano 22
Santa Marinella  29,30,39
Santuario di Diana Planciana 41
Santuario di Febris 41
Santuario della Fortuna Euelpis 41
Santuario della Pudicitia Plebeia 41
Santuario di Santa Maria dell'Acquasanta 23
Santuario di Semo Sancus 41
Santuario di Spes 41
Salmen, Brigitte 17
Savelli 23
Schlegel, Friedrich (1772-1829) 9
Schlosser (von), Heinrich J.F. (1780-1851) 16
Sicilia 14
Sorgenti di Palazzolo 24
Sulpiz Boisseree (1783-1854)16
Sutri 26
Tarquinia 5,31,32,35,37,38,63
Tempesta, Antonio (1555 – 1630) 26
Tempio del Divo Romolo 28
Tempio di Ercole 42
Tempio di Flora 41
Tempio della Fortuna Primigenia 42
Tempio di Venere Erycina 42
Teodorico 28
Terracina 16
Tito Tazio (745 a.C.) 41
Tivoli 16,24
Tomba delle Bighe o Stackelberg 31
Tomba di Quirino 41
Tor Cervara 9
Torre Chiaruggia 39
Totila 25
Turchia 14
Turno Erdonio Aricino 24
Tuscania 17,30,31,32,33,35,36,37
Urbano VII Castagna (1521 – 1590), 30,39
Urbano VIII Barberini (1568 – 1644) 28,41,53
Valadier, Giuseppe (1762 – 1839) 28
Valle Ferentina 24
Valle Gaudente 25
Valle del Marta 34
Valle del Maschiolo 34
Velletri 22
Vestri di Barbiano, Ottaviano 40
Via Appia 12,23,44,48,53,54,59
Via Appia Pignatelli 52
Via Aurelia 29,39
Villa Barberini Mandosi - Spithoever 40,41
Via Capo le Case 8
Via Cassia 26,55
Via Condotti 10
Via dei Laghi 22,23
Via Francigena 27,34
Via Nomentana 5,20,21
Via Sacra 28
Via Veneto 19
Vico 30,39
Vicus Longus 41
Villa Adriana 24
Villa d’Este 25
Villa Malta 8, 14, 40
Villa di Domiziano 24
Villa di Ulpiano 30,39
Viminale 41,42
Vitelleschi 33,36
Vogel, Ludwig (1810-1870) 9
Vulci 29,60
Wagner (von), Johann Martin (1777-1858) 14
Winckelmann, Johann Joachim (1717-1768)   8
Wintergerst, Josef (1783-1867) 9
Wittmer, Johann Michael (1802-1880) 14,15,16,17
Zuccari, Federico (1542– 1609) 26